Maschi mammoni e gitarelle tra campanile e nostalgia

Il Trash è Trash, e va rispettato. Per ciò non partiamo da 2061 per questo piccolo viaggio sul pianeta Vanzina. Perché quest’ultima svogliata passeggiata vanziniana è trash gettato alle ortiche. Immondizia aggregata per accumulo distratto e stratificazione, impossibile da differenziare e da trasformare in utile. Per giunta, nella sua forma scomposta, nella sua sgraziata salute, il trash vero, il migliore, deve possedere quella disgraziata vitalità, quel sapore acido e profondo che non va via al primo risciacquo. Deve strappare certe risate rinnegate e intrattenibili che scatenano una leggera, duratura, cara, permanente simpatia verso quel film tenuto quasi segretamente, affezionatamente in dura memoria. Il trash vero è un amico trascurato che torna prezioso nei momenti di evasione, in quelle serate stanche di pausa critica. Spesso d’estate, con gli amici più sicuri, quelli che non ti fraintendono e non giudicano male la tua passione per il cinema minore. Ed è così bello, poi, trovare dentro il cinema trash qualche preziosa inquadratura, qualche personaggio tagliato meglio di altri, alcuni passaggi di tempo fermati da un dialogo, da un costume preciso, da certa fotografia, da quella canzone che…
Che nel trash c’è una cultura nazionale, non lo scopriamo ora. Ma 2061 non è il trash che si vorrebbe. Non colora il genere e non lo riabilita. Semmai lo confonde con i parassiti che lo aggrediscono e che grazie a lui sopravvivono al tempo. Viva il trash, ma non facciamo di tutta l’immondizia un trash. 2061 è una buona idea trasformata in una notevole delusione. Un valido esempio di pigrizia e sciatteria. Che non fa ridere e che non descrive, da solo, gli aspetti della contemporaneità quotidiana che non fanno notizia e che non si colgono prima che muoiano.
Che poi, i romani fratelli figli di una grande commedia, non proprio e non sempre all’italiana, non sono gli esempi primi per raccontare il trash italiano. Sono piuttosto gli incompiuti prosecutori di una commedia di costume che dagli anni cinquanta ad oggi non ha mai smesso di esistere. Monicelli, qualche tempo fa, ci disse: “La commedia c’è sempre stata. E sempre ci sarà. Esistono momenti migliori, più fortunati, ed altri peggiori, caratterizzati da film meno incisivi ed importanti. Oggi, forse, è un momento così. Ma la commedia continuerà ad esistere e non tarderà a tirare fuori le sue zampate migliori”.
Carlo ed Enrico si sono inseriti nel cinema italiano con buoni propositi, ma in un momento in cui la commedia è stata tradita dal suo successo, dalla televisione e da una società poco cosciente che preferiva l’evasione alla sua autobiografia. Fatti di una tradizione fortissima, i fratellacci capelloni e sghembi non hanno mollato ed hanno mantenuto vivo il desiderio di fotografare il reale di tutti, quello di superficie, di una Italia in indaffarato, cieco, povero, penoso movimento. Chi scrive continua a pensare che non ci sia commedia italiana migliore di Vacanze di Natale, il primo, per raccontare gli anni 80 di tutti. Non c’è paragone con Amici Miei e con Fantozzi, sempre il primo. Ma quei due capolavori sono di un decennio precedente. Un decennio troppo lontano e transennato per poter lasciare vivo il suo segnale anche nel cinema. Chi, dopo le tempeste piombate e serissime degli anni ’70, maledette e benedette al tempo stesso, meglio di Vacanze di Natale ha saputo raccontare le nuove vacanze di ricchi e dei nuovi poveracci? Chi ha trattato il basso tema delle corna e delle controcorna con tanta grazia e trovate educate? Chi ha saputo raccontare gli eterni Nord e Sud con rinnovata energia? Chi ha scoperto il calcio come collante Nazionale? L’allenatore nel pallone, capolavoro del trash insieme a Vieni avanti cretino, è venuto un anno dopo.
“Secondo te, come passa il capodanno Toninho Cerezo?” “Secondo me dorme, è un professionista”. “Io a una così je darei pure nove”. “Erore: nove in pagella se da solo a Falcao”. “Erore tuo: io a Falcao je do dieci”.
Ecco un calcio di costume, italiano perfetto che non usa retorici e volgari slogan, che non urla e non strombetta da una curva all’altra, che racconta la nuova passione dei giovani senza politica con una delicatezza rara da allora in poi. Soprattutto per quel cinema di cassetta e di così largo consumo. E ritornano i mammoni della grande commedia italiana, quei bambinoni piagnoni e fighetti che prima fanno il passo e poi tornano da mammà. E’ pieno di mammoni il cinema dei Vanzina. Pieno di scapoli, di seduttori e di mariti, il riferimento alla trilogia sordiana non è per nulla casuale. Che siano gay, yuppies, vitelloni griffati, conquistadores de me cojoni o de noantri, non sanno fare a meno del piatto fumante di pastasciutta, che se sono bucatini va benissimo, ma se sono fusilli è ancora meglio. L’Italia dei Vanzina è una Italia maschilista moderata, povera di valori ma felice. Legata al fallimento degli eroi all’italiana e sorridente della propria piccola borghesia. Una Italia che ha deposto le armi tante generazioni prima e che di combattere la propria causa, nemmeno per sogno. Meglio correre dietro a un bel culetto e sperare di farla franca, perché quel delizioso timido conto in banca vale più di una coscienza e di una discussione del sistema, che farà forse i cavoli suoi, ma a noi lascia fare quel che sappiamo e possiamo fare.
Torniamo un attimo a 2061. L’Italia è nuovamente divisa in territori separati da politica e cultura. Il Regno delle due Sicilie è un sultanato a regime arabo. A Firenze si combattono le fazioni dei dellavalliani e quella dei cecchigoriani. Un muro divide il Nord della penisola dal resto dell’ex paese e nessuna forma di terrone può accedervi senza permesso. Il ponte sullo stretto è stato fatto saltare ed il Papa se la gode nel suo rinnovato ed ampio Stato Pontificio. Un gruppo di sbandati (il riferimento all’Armata Brancaleone è abbastanza chiaro) viaggia da Sud a Nord nel tentativo di rimettere le cose non apposto, ossia rifare l’Italia. Ecco tre vecchi binari del miglior cinema vanziniano: la citazione cinematografica, il campanilismo da stadio ed il road-movie.
Cinematograficamente i Vanzina sono molto legati agli anni Sessanta. Non lo dimostra solo il chiaro omaggio di Sapore di mare. E’ soprattutto il disegno dell’italiano che ritorna deciso a quel maschio e a quel tipo di narrazione. De Sica è un misto di mostri, un po’ Sordi, un po’ suo padre. Calà è un Tognazzi senza amarezza, senza tridimensionalità. Ed i caratteristi, Brega, Garrone, sono gli equivalenti dei fratelli Carotenuto. Calà è un seduttore goffo e fallito che non si rassegna a crescere e qualche rara volta storce il naso. Ma la citazione dei Vanzina può spingersi oltre la tradizione ed arrivare al singolo film. Addirittura lo può riesumare e riportare ad una nuova vita. Già tre i casi. L’omaggio al padre, ed a se tessi: La mandrakata. L’omaggio al personaggio: il monnezza, traslato e finto. L’automaggio, caso forse unico, l’autocitazione: Eccezzziunale veramente, capitolo secondo me.
Il regionalismo antichissimo nel costume italiano, più antico dello stato, sopravvive grazie al calcio. Romanisti e Juventini rimarrano tali perfino in America, e si ritroveranno corpo a corpo, senza farsi del male, perfino nella Valle della Morte. Se la giocheranno a calcio e da buoni italiani brava gente se la caveranno con un pari e con qualche coro innocente prima che cali il sole. Si viaggia nel cinema dei Vanzina, ma non si coglie del mondo e delle culture nessuna forma di conoscenza che non sia quella confezionata dalla nostra tradizione. Vengono rappresentati lo stereotipo dell’italiano all’estero o in vacanza. Il mondo rimane piccolo e identico a quello conosciamo. Non ci sarà paese, alla fine del viaggio, che sarà migliore dell’Italia.
“Don Bu, dicce ‘m po, com’è ‘sct’America?”. “ E com’è, è vasta, scimisurata, si volemo pure tentagolare e ‘m po’ gaotica. Ma vo mette ‘sto ventiscello de Ceprano coi grattascieli zozzi de Niu iork? E poi lo sai che te dico? Abbeata la gnuranza, si sctai bene de mente, de core e de panza!”.
Anche la California sempre sognata, (Sognando la California, 1992) diventa un paese senza sorprese e già completamente visto. Tutto l’importante è ciò che rimane a casa e che col telefono si può costantemente monitorare. Non c’è romanzo di formazione. Nemmeno la scappatella tanto sperata. Si torna a casa sballottati, con la moglie incazzata o con una solitudine appena avvertita.
Non cambierà mai questa convinzione nel cinema dei Vanzina. L’Italia è un paese pallonaro che non guarda oltre se stesso. Che si divide e si scontra, pacificamente, con cori, sciarpe ed insulti. Basta vedere Olè, loro penultimo film, per scoprire incroci di comitive campanilistiche con vessilli, che se ne dicono quattro e ripartono contente. Certi ingredienti sopravvivono di film in film, da quelli discreti, mai formidabili, a quelli da turarsi il naso e arrabbiarsi per i risultati del botteghino.
2061 è noia. Perchè Carlo ed Enrico, con il contributo di Diego Abatantuono, non hanno avuto tempo e voglia di trasformare quest’idea popolare in una storia almeno divertente da seguire.
Con l’immondizia viviamo: ne produciamo, ne respiriamo, tentiamo di trasformarla in risorsa. Ci atteggiamo a illuminati se la differenziamo e la odiamo cinque secondi dopo averne fatta ancora. L’immondizia è la buccia del nostro affannato correre e produrre. Lo scarto del bello, la fine dell’utile. La quantità d’immondizia prodotta è direttamente proporzionale alla quantità di ricchezza prodotta. Più c’è ricchezza più c’è immondizia. Più c’è bel cinema più ci sono brutti film? Vediamo molta robaccia nel cinema italiano, e non vediamo molti bei film. Ci sono pochi film e molti di questi sono di scarso valore. Una considerevole percentuale è immondizia. L’immondizia non è più risorsa potenziale, come poteva essere una volta, ma ha valore autonomo: possiede un suo specifico estetico contenutistico. Proviamo a immaginare che 2061 sia l’immondizia del cinema italiano. E misuriamo il valore del cinema italiano in base a quello di 2061. Analizziamo il pigrissimo film dei fratelli Vanzina da quest’insolita prospettiva. Con i tempi che corrono, con la televisione che abbiamo, con l’informazione “sappi e getta” che ci caratterizza, i fratelli possono aver pensato bene di trascurare quel poco che sanno fare, e che certe volte hanno fatto benissimo: narrare con leggerezza. Di fronte ad una collettività diversa, ad un quotidiano di più alto valore, forse non si sarebbero permessi di trattare così male la loro professione e di offendere loro due per primi. Gli rimangono le idee, gli spunti e le furbe intuizioni. Ma hanno scritto coi piedi sinistri questa sceneggiatura ed hanno preteso dal mucchio eterogeneo di attori (e mezzi tali) solo il volto e qualche suono vocale. Non si ride quasi mai pur avendone voglia e pur credendo nella commediaccia popolare. Ci risulterebbe assai difficile estrapolare dal film una sola scena valida per certificare una situazione sociale, un fatto di costume. Cosa che per alcuni dei loro altri film è possibile e non difficile. La questione è che se c’è una prima fascia forte, nella seconda possono finirci alcuni di quelli che meriterebbero la prima. E così nella terza alcuni di quelli che meriterebbero la seconda. Potrebbe capitare di trovare nella quarta qualche esempio di prima fascia. Se facciamo il pranzo con lo champagne lasciamo che il Chianti tocchi a chi verrà dopo. Ma se il Chianti è la prima scelta per la seconda tocca pensare al Fontana Candida e per la terza al Tavernello. E il tavernello non è buono e non fa bene. In questo film ci troviamo alle prese con Jonathan del Grande fratello, con un Abatantuono spento che imita svogliatamente il personaggio che lo ha reso famoso. Quel terruncello trovò nei Fichissimi e in Arrivano i gatti, non proprio due perle, la strada della sua fortuna. In Eccezziunale veramente trovò un soggetto originale e si inserì a titolo definitivo nella storia, non eccelsa, della comicità italiana targata anni Ottanta. Oggi Abatantuono pare veniale e triste, annoiato e cinico. Per trovare un po’ di verve, di fame, dobbiamo aggrapparci all’entusiasmo di Sabrina Impacciatore. Per sorridere senza divertimento guardiamo con la mano davanti agli occhi trenta secondi dell’erotomane Ceccherini. Aspettavamo qualche colpo geniale di Anna Maria Barbera e ci sentiamo ritraditi quando scopriamo che sta in scena per pochi secondi. Dino Abbrescia, emergente attore italiano, si trova a galleggiare in questo sventurato tentativo e non se ne discosta perché ancora non ha lo spessore per farlo. Poi ti arriva Placido, che di mestiere ormai fa il grandissimo caratterista, lo specialista in meravigliosi secondi, terzi personaggi, e ti ricordi che per fare i film bisogna trovare gli attori. 2061 è Tavernello ed è uno dei film peggiori tra quelli dei Fratelli Vanzina. Che capiscono di cinema molto più di tanti altri, perché ne hanno masticato sin da bambini e perché sono due fricchettoni pariolini svegli e persino simpatici che vivono di cinema. Hanno realizzato un numero elevato di pellicole realizzando alcuni pregevoli lavori. Vacanze di Natale su tutti, ma anche Sapore di mare, Yuppies, Vacanze in America ed Eccezziunale veramente. Hanno provato a fare il cinema di genere non comico, ma non è andata bene: Sotto il vestito niente, La partita. Alcune sono pellicole che tra cinquant’anni saranno ancora utili e godibili. Non pensiate che certe perle che ritroviamo oggi su Sky, alla loro uscita fossero importanti come ora. Quel magico bianco e nero oggi è ancora più bello.
La sensazione è che in questo, i Fratelli Vanzina, abbiano corso veramente troppo, e che abbiano inciampato più vistosamente che in altre circostanze. Forse perché avevano altro da fare, altro cinema. E’ in uscita il film di Claudio Risi, che dei due è stato ed è fido collaboratore. Nel suo film, Matrimonio alle Bahamas, c’è forse la spiegazione del sonoro fallimento di 2061. Un film di Natale che è uscito silenziosamente in autunno perché in fondo nessuno ci ha creduto. Ma 2061 non deve essere il modo per ricacciare Carlo ed Enrico nel girone dei capri espiatori e non deve essere il bersaglio facile per un invettiva contro la cronica, perenne, mezzo secolare crisi del cinema italiano.
I Vanzina non hanno mai avuto la possiblità di inserire Totò o Alberto Sordi nelle loro commedie ed hanno dovuto adattare il loro cinema potenziale agli anni Ottanta fatti di comici mai grandi e provenienti dalla Tv. Se fossero nati qualche anno prima, probabilmente, in una stagione di commedia dove il racconto era serio ed affidato a grandi maschere, forse, anche favoriti dalla posizione del padre Steno, avrebbero dato un contributo diverso alla Storia del cinema italiano. Invece hanno puntato su una leggerezza a volte educata, ed hanno sempre messo il costume al primo posto nei loro interessi. Quando uscì Via Montenapoleone si gridò per l’ennesima (e mai ultima) volta alla morte del cinema italiano. A riguardarlo oggi il film mostra una discreta capacità narrativa e una fotografia nitidissima della Milano da bere. Contiene persino dei reperti interessanti per il rapporto tra cinema italiano ed omosessualità. Certo, si dirà, Splendori e miserie di madame Royale, Parigi o cara, Una giornata particolare, Il vizietto, sono tutt’altro modo di raccontare un tema delicato come quello dell’omosessualità. Eppure Via Montenapoleone rientra nella filmografia utile a quel tema e si inserisce, con modesta eleganza, anche nella crisi della coppia e nelle dinamiche relazionali di quel decennio.
Non vorremmo che persino 2061 possa trovare, in un futuro sempre più di apocalisse culturale, una sua rivalutazione. Sarebbe un fortissimo segnale. E proprio nel rapporto con gli altri film vanno visti e giudicati i film dei Vanzina. La mandrakata, Il ritorno del monnezza e Olè. L’immondizia, con tutto il suo valore potenziale, siamo nell’epoca dei rifiuti da trasformare e riutilizzare, può essere separata, riaggregata, oppure semplicemente buttata nel cestino. Purtroppo, senza ironia, la puzzolente sostanza di 2061 è gettata in un cassonetto che non fa raccolta differenziata.

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