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Maternity blues

Pubblicato il 25 aprile 2012 da Sofia Bonicalzi
VOTO:


Maternity blues

Medea, l’eroina immortalata nell’omonima tragedia euripidea, trasformava l’uccisione dei propri figli nell’ultimo atto di un immaginario processo al compagno Giasone, colpevole di avere preferito a lei – alla barbara giunta dalla Colchide – la figlia del Re di Corinto. Il prezzo per il tradimento e la solitudine è un assassinio progettato con ferocia, dettato dal “thumos”, l’impulso emozionale che obnubila la mente, ma progettato con la cura di chi ha già accettato l’ineluttabile incombere della sventura. Nel finale Medea, trionfante sul carro del Sole, si alzava in volo alla volta di Atene, squarciando con il suo passaggio il cielo di lacrime cui si abbandona l’argonauta Giasone. _ Ben diverso è il destino delle protagoniste di Maternity Blues, lungometraggio di Fabrizio Cattani, presentato nella sezione Controcampo alla Mostra del Cinema di Venezia 2011. Tratta dalla pièce di Grazia Verasani, From Medea, messa in scena fra Italia, Germania e Francia (Festival di Avignone), il film tratteggia le vicende di una serie di donne, accomunate dal medesimo crimine, colpevoli di aver ucciso i propri figli per rabbia, tristezza e disperazione. Le loro storie individuali si condensano nello spazio di una struttura comune, un ospedale psichiatrico che sostituisce al carcere la coabitazione con le proprie simili, creature ferite e perse in una lontananza che pare irrimediabile. Donne miti o aggressive, gentili o ciniche, alla ricerca di nuovi oggetti da amare o in fuga da ogni forma di legame. L’interrogativo insoluto, cui Maternity Blues gira attorno, riguarda la natura stessa del legame filiale, la scintilla che dovrebbe naturalmente scaturire dall’incontro fra due corpi che si coappartengono fin dall’origine, per poi tradursi in un vincolo perenne. Indagine antropologica e sociale di un disagio profondo e spesso nascosto, il film si ispira a un ideale di neutralità empatica e, sospendendo il giudizio sull’operato delle figure rappresentate, vorrebbe offrire allo spettatore i mezzi con i quali proseguire oltre la mera apparenza. L’efferatezza del gesto è tale da divenire comprensibile solo in quanto gesto estremo di un’esigenza d’amore che non trova sbocchi, resa accessibile dalla creazione di un contesto che rende le donne vittime designate di una spirale di autodistruzione. Bene e male si congiungono indissolubilmente, sfociando in un senso di colpa non alleviato dalla decostruzione dei tasselli che compongono il quadro. Un marito assente, un compagno che tradisce, una famiglia oppressiva, la povertà. “Non incolpo nessuno per quello che ho fatto”, cantilenano le donne in sequenza. Non sono folli, ma neppure crudeli, uccidono istantaneamente, ma covano un malessere che viene da lontano. Rina, Vincenza, Eloisa e Clara sono le figure emblematiche, scelte per rappresentare l’universo femminile nel suo complesso: sui loro volti – stretti in primi e primissimi piani – si costruisce il corpo di Maternity Blues, avvolto dalla luce livida e fredda della fotografia iperrealistica di Francesco Carini.

Clara è l’ultima arrivata, riservata e silenziosa, combattuta fra il desiderio di riavvicinarsi al marito Luigi e le macerie di un’esistenza che non le appartiene più; Rina è la più giovane, fragile e naive, sogna una vita diversa, ma teme di varcare il cancello che la separa dal mondo esterno; Eloisa, ex cantante di provincia, sbandata e aggressiva, sembra la più dura; Vincenza, donna di mezza età, religiosa e assennata, scrive diari per i figli maggiori, che sembrano averla dimenticata. Per l’intera durata del film, si avverte il tentativo di rompere il tabù dell’assoluto amore materno per sostituirlo con una comprensione stratificata delle molteplici e contraddittorie spinte che si assommano nel legame fra madri e figli. Quando due donne (truccate e agghindate) additano il marito di Clara come il “compagno dell’assassina”, la smorfia infastidita che si dipinge sul volto di chi sta modificando i parametri della propria coscienza (la divorziata innamorata di Luigi) dovrebbe trasferirsi, almeno nelle intenzioni, sui visi degli spettatori ormai educati a una maggior consapevolezza. Eppure qualcosa non funziona, la scrittura si inceppa, la recitazione zoppica, la caratterizzazione dei personaggi rimane imbrigliata in un eccessivo schematismo, rendendo difficile l’identificazione emotiva e impedendo al tempo stesso di vedere in Maternity Blues un esemplare riuscito di quel filone intermedio fra fiction e documentario che rappresenta una delle vie più feconde del cinema italiano degli ultimi anni.


CAST & CREDITS

(Id.) Regia: Fabrizio Cattani; soggetto: Grazia Verasani; sceneggiatura: Fabrizio Cattani, Grazia Verasani; fotografia: Francesco Carini; montaggio: Paola Freddi; musica: Paolo Vivaldi; interpreti: Andrea Osvart (Clara), Chiara Martegiani (Rina), Monica Birladeanu (Eloisa), Marina Pennafina (Vincenza), Daniele Pecci (Luigi), Elodie Treccani (Giulia), Pascal Zullino (dott. Scalia), Giulia Weber (Trudy), Rosa (Lia Tanzi); produzione: ipotesICinema, Faso Film; distribuzione: Fandango; origine: Italia 2011; durata: 95’; web info: http://www.maternityblues.it/.


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