Matrimonio alle Bahamas

Ci sono tre anime alla base dell’ultimo film con Massimo Boldi, tre diversi modi di intendere il cinema e il racconto che si incontrano, ma che, in barba al titolo che annuncia una sacra unione, in realtà non riescono mai a sposarsi per davvero.
La prima è la dimensione della comicità dello slapstick, del comico puro fatto di cascatoni e ruzzoloni, di inseguimenti e scambi di persona. È la comicità di “azione” che si consuma tutta nello spazio dell’inquadratura.
La seconda è la realtà del comico verbale, del gioco di parole, della stratificazione linguistica dei dialetti che si incontrano, ma restano reciprocamente estranei. È la comicità della sceneggiatura e del gioco degli attori resi maschere per l’appunto dialettali.
La terza, infine, è la più ambiziosa “commedia di situazione”, il gioco sul contenuto, l’aspetto riflessivo che si condensa nel perenne arcano del conflitto di classe e nello scontro tra strati sociali diversi (i ricchi da una parte, i poveri dall’altra). È la leggerezza del pensiero, il gioco settecentesco dell’artista che guarda a se stesso come ad un “castigatore di costumi”.
Queste tre anime si rincorrono sulla superficie goliardicamente assurda del film non riuscendo a trovare, se non in brevissimi momenti, un proprio franco spazio di espressione comune.
Questa sostanziale incapacità di gestire e fondere in un unicum compatto questi tre registri stilistici fa sì che il film avanzi per lo più in maniera frammentaria, come una successione inesausta di gag tra loro assolutamente impermeabili che si riuniscono intorno ad una traccia narrativa unificante esilissima. Matrimonio alle Bahamas, anzi, sembra essere il perfetto prototipo di un film “Lego” dove ogni scena è come un mattoncino colorato che potrebbe virtualmente trovare il suo punto d’incastro ovunque. Questa struttura per moduli garantisce un risultato immediato: non obbliga lo spettatore ad un’attenzione continuativa nei confronti del film.
Dalla visione di Matrimonio alle Bahamas ci si può distrarre quanto e quando si vuole senza che la cosa ci faccia perdere momenti fondamentali dell’intreccio. Anzi, la pellicola segna da questo punto di vista il vero e proprio trionfo del film zapping dove a cambiare canale non è il pubblico, ma il cinema stesso. Di più: si può entrare in sala anche a visione abbondantemente avanzata senza che questo comporti l’esclusione dello spettatore dal gioco narrativo. Dal momento che la situazione resta sempre assolutamente riconoscibile (tanto è esile la trama) e che i personaggi sono, come dicevamo, delle maschere, basta appena una sguardo sullo schermo per entrare in media res orientandosi perfettamente nella struttura (?) narrativa.
Il problema vero di un film come Matrimonio alle Bahamas non è quello di aderire a questa logica estetica votata al disimpegno, ma si concentra tutto nei modi assolutamente dilettanteschi con cui questa adesione viene portata avanti.
La logica dello slapstick, infatti, prevede, per il regista che vi si cimenti, una perfetta gestione dei tempi e degli spazi dell’inquadratura, pretende assoluta padronanza tecnica del mezzo. Allo stesso modo una comicità verbale e dialettale reclama una ferrea gestione dei ruoli e delle battute, un calcolo millimetrico della successione delle parole e della loro apparente confusione. L’ambizione alla commedia di costume, infine, presuppone una capacità di uno sguardo dall’esterno sulla vicenda narrata, una visione “altra” che ci fa vedere le cose come stanno senza indulgenze o pietismi di varia natura.
Matrimonio alle Bahamas, da parte sua, si rivela fallimentare sia dal punto di vista tecnico che nella costruzione del proprio “sguardo” sui personaggi e, quindi, sul mondo.
Bastano pochi esempi per rendersene compiutamente conto:
a) la scena in cui Cristoforo Colombo aggancia con la sua valigetta, prima il vestito del preside poi quello della segretaria spogliandoli: In un normale slapstick muto una scena del genere sarebbe stata risolta probabilmente all’interno di un set neutro, poco connotato dal punto di vista spaziale (bastava solo la scrivania del preside a suggerire la funzione del personaggio e la porta d’ingresso alla stanza) entro cui costruire una successione di piani tali da garantire l’effetto comico (dettagli sulla valigetta e sui vestiti, primi piani dei malcapitati spogliati e qualche parco totale a rendere la scena nella sua interezza). Risi da parte sua sceglie un montaggio piano tra il primo dettaglio della valigetta che aggancia i pantaloni del preside e un campo medio sulla stanza dove la macchina da presa viene piazzata irrimediabilmente nel punto più sbagliato (il preside resta coperto dalla scrivania e il povero Boldi è costretto a fare un giro assai goffo per andare ad agganciare il vestito della donna entrata nel frattempo in ufficio) con l’inquadratura appena spezzata da un piano americano del preside stesso e un primo piano della segretaria che funge da immediato controcampo. In questo modo l’effetto comico annega nella goffaggine della confezione.
b) La scena dell’inseguimento del ladro in taxi (comparsa d’eccezione -?- Solange): Una scena, questa, che avrebbe potuto garantire una certa animazione, ma che si compone, per il regista, di appena tre inquadrature 1) dettaglio della mano che gira la chiave di accensione della vettura 2) dettaglio della ruota della stessa in retromarcia cui dovrebbe normalmente seguire un totale sulla strada con la macchina che ingrana la prima e parte e 3) incongruamente una scena dall’interno della vettura che, già in moto, corre lungo un vicolo di Roma che non ha nessuna continuità spaziale con il parcheggio da cui il taxi partiva. Neanche la costruzione lineare del montaggio, quindi, funziona.
c) La scena finale del matrimonio alle Bahamas che è doppiata senza alcuna definizione dei volumi sonori rispetto ai piani dell’inquadratura (si ascolti solo la voce del prete che sembra letteralmente fluttuare nel vuoto tra un campo e l’altro).
Ma il film non è “fuori tempo” solo nella forma, ma anche nei contenuti. La contrapposizione classista di cui è sostanziato il racconto, infatti, annaspa nella consapevolezza di un mondo che è molto cambiato dai tempi d’oro della commedia che faceva urtare proletari e vecchia nobiltà decaduta. I due poli del discorso, in Matrimonio alle Bahamas, i ricchi e i poveri, non sono più esponenti di due classi diverse, ma due sfumature di una stessa classe sociale definitivamente trionfante: la media borghesia. Che, secondo Risi, non è mostruosa come se la figurava Pasolini, ma, al contrario è sostanzialmente buona quando mette in prima linea i valori del lavoro e della famiglia. Valori in crisi da più di un decennio. E mentre una nuova coppia si forma, in seno al film, in nome del lavoro e dell’operosità (meno soldi si hanno e più si è autentici: un pensiero che vale solo fino alle soglie di Forza Italia) a noi non resta che chiederci che ci stanno a fare I fichi d’India in tutto questo.
(Matrimonio alle Bahamas); Regia: Claudio Risi; sceneggiatura: Carlo Vanzina, Enrico Vanzina; fotografia: Gianlorenzo Battaglia; montaggio: Mauro Bonanni; interpreti: Massimo Boldi (Cristoforo Colombo), Anna Maria Barbera (Rosy Colombo), Biagio Izzo (Al Di Giacomo), Enzo Salvi (Oscar), Lucrezia Piaggio (Valentina Colombo), Bruno Arena (Cugino), Max Cavallari (Cugino), Donald French (Bob Di Giacomo), Raffaello Balzo (Luca); produzione e distribuzione: Medusa Film; origine: Italia, 2007; durata: 88’
