Michael Mann: Riappropriazione del sistema classico

Un regista post-classico?
Asserire che il cinema di un autore americano risenta di derivazioni classiche ha in molti casi un significato piuttosto vago, o meglio non definibile secondo precisi parametri estetici. Nell’opera di Michael Mann invece il lavoro di rielaborazione di codici stilistici derivanti da un modo di intendere il cinema ormai passato è pienamente visibile, quindi testimoniabile. Il tratto fondamentale che infatti distingue l’autore di Miami Vice e lo avvicina a stilemi appartenenti ad un periodo ingiustamente ritenuto superato è specificamente il lavoro dentro l’inquadratura.
Proviamo a spiegarci meglio. Il tratto peculiare che ha reso il cinema classico americano un prodotto esportabile e pienamente riconoscibile - quasi a prescindere dal “personal touch" di grandi maestri come Wilder, Wyler, Minnelli, Sirk e molti altri - si basava sull’invisibilità della macchina da presa rispetto alla messa in scena: movimenti sempre ridotti al minimo ed angolazioni di inquadratura lucidamente studiate per garantire l’”invisibilità” del mezzo. Questo sistema appositamente elaborato ha consentito al pubblico di tutto il mondo di poter codificare con semplicità degli stilemi che ben presto si sono affermati a livello internazionale. Ciò che avvicina il discorso estetico/poetico di Mann è proprio questa volontà di lavorare all’interno di tale elaborzione, che ha portato a considerare la messa in scena davanti la macchina da presa come predominante rispetto alla stessa. Se pensiamo a tutto il cinema di Mann, ciò che folgora è la bellezza e la pregnanza dell’inquadratura, non il virtuosismo del movimento. Come i grandi del passato, il cineasta ha saputo costruire un percorso assolutamente personale di costruzione estetica basata su ciò che lo spettatore percepisce dentro l’inquadratura. Le due specificità che Mann adopera maggiormente per definire il suo stile sono il taglio sui primi piani ed il cambio di fuoco sui personaggi in scena.
In un cinema americano che va sempre più verso la definizione spaziale di ambienti e corpi in movimento (ciò che garantisce a budget sempre più elevati di essere “visti” dal pubblico), Mann non ha paura di stringere i campi, di stare addosso ai propri personaggi per catturarne tutta la portata psicologica: soprattutto nei dialoghi a due, si può sempre riconoscere il tocco del cineasta nello stringere al massimo il taglio su un volto o su un gesto; la valenza drammatica di quanto avviene in scena è restituita sempre e comunque dal “corpo espressivo” dell’attore, non dall’intervento di musica, montaggio o soprattutto m.d.p. Anche il cambio di fuoco nella maggior parte delle situazioni è adoperato per generare il montaggio interno all’inquadratura, a scapito dell’”invasione semantica” del montaggio stesso.
Questo modus operandi lineare, inserito in un’appropriazione personalissima ed adeguata al proprio gusto visivo, testimonia in pieno come Mann abbia sempre lavorato su codici di cinema in qualche modo “classici”. L’immagine, la poetica cinematografica di Michael Mann è splendida in quanto elegante e riconoscibile, ed al tempo stesso semplice nella sua forma primaria. Nel provare a spiegare come questo autore abbia rielaborato gli stilemi del cinema classico c’è un altrettanto semplice, preciso esempio da portare...
Il campo/controcampo: definizione di un modo di vedere.
Costruire, lavorare sulla più semplice delle inquadrature considerandola la più importante: ecco in sintesi la lezione prima ed intramontabile del periodo d’oro di Hollywood, ed ecco come Mann l’ha seguita. I due screen shot inseriti all’inizio dell’articolo sono stati estrapolati da Heat - la famigerata conversazione tra Al Pacino e De Niro - e da Manhunter - la prima visita che l’agente Graham reca a Lecter nel manicomio criminale. Abbiamo scelto questi due per semplice amore verso le rispettive scene, potendo comunque muoverci in mezzo ad un campionario di esempi vastissimo e rintracciabile in ogni film del regista, soprattuto in lavori esteticamente più compiuti come Insider o Collateral. Già da una prima, semplice occhiata è facilmente possibile rintracciare delle coordinate che Mann ha fin dai primi film adoperato per costruire il proprio stile: nei campo/controcampo l’inquadratura è sempre asimmetrica, nel senso che il protagonista non è ai piazzato al centro, ma spostato rispetto all’asse mediana; questo elemento spaziale determina uno sfasamento di prospettiva, in disequilibrio creativo che permette al regista di lavorare sulla composizione del resto dell’inquadratura. Come si nota infatti il resto del fotogramma presenta due elementi, tra loro separati, che con la loro presenza impreziosiscono la costruzione dell’immagine e la rendono pienamente riconoscibile come appartenente al cinema di Mann. Il primo elemento, costante nel campo/controcampo, è la presenza dell’interlocutore che agisce nella funzione di “quinta”, riempiendo l’angolo opposto a quello dell’inquadrato e rappresentandone quindi l’antagonista in maniera presente, quasi pulsante: questo effetto viene raggiunto anche dalla sfocatura dello stesso, che racconta in maniera implicita la distanza, la diversità che passa tra le due figure in scena. Il secondo elemento, non sempre presente ma costantemente ricercato dal cineasta, è una dominante cromatica (possibilmente chiara, come le mura della cella in Manhunter) che in qualche modo immerga i personaggi in una dimensione ultra-realistica, espressiva nel rivelare in immagine stati d’animo, tensioni, comunque conflitti interiori.
Questi semplicissimi accorgimenti, in qualche modo variazioni personali su pratiche comuni a chiunque faccia cinema, testimoniano in maniera secondo noi esplicita ormai il discorso affrontato nel primo paragrafo, e cioè che Mann si sia mosso dentro gli stilemi codificati del cinema americano classico per poi superarli, o meglio rielaborandone alcune direttrici a seconda della sua precisa ed originale idea di cinema. Allo stesso tempo, essi raccontano anche come quel cinema e sopratuttto quel modo di "vederlo" riescano ancora oggi a determinare, tramite processi di appropriazione come questo, ma anche di rifiuto, molti dei più importanti cineasti contemporanei.
