Mio fratello è figlio unico

Confrontare un film col libro da cui ha tratto spunto è il più delle volte un esercizio sterile e fuorviante. Eppure, in certi casi (soprattutto quando ad essere tratto da un volume interessante è un film per certi versi esteticamente monco) il confronto tra le due realtà può aiutare a meglio comprendere i motivi del sia pur parziale fallimento estetico.
Quali sono allora le differenze tra Mio fratello è figlio unico, ultima fatica di Daniele Luchetti, e Il fasciocomunista, autobiografico romanzo di Antonio Pennacchi? Molte. Forse troppe per giustificare la scritta ‘tratto da’ che apre la pellicola.
Ma quelle che contano maggiormente ai fini del nostro discorso non sono tanto le differenze volute, quelle per cui da un certo punto in poi – quasi subito ad essere sinceri – la storia prende direzioni e mette in moto situazioni del tutto estranee a quelle del corpo romanzesco, ma quelle involontarie. Si ha l’impressione, spesso nel corso della visione, che quello che doveva essere un sostanziale tradimento della lettera del libro non voleva esserne uno anche nello spirito.
Il fasciocomunista tenta la strada di un’operazione a suo modo utopica: quella di porre al centro della narrazione un personaggio anomalo ed affascinante. L’Accio di Pennacchi è un personaggio perennemente uguale a se stesso, quasi del tutto incapace di una crescita interiore reale. Certo nel corso del romanzo egli attraversa da Nord a Sud una buona metà della penisola, ma ama Milano perché riconosce nella città lombarda una seconda Latina più silenziosa e meglio costruita. E certo passa, a livello politico, dall’estrema destra all’estrema sinistra, ma lo fa con la disinvoltura di chi non pensa alle ‘idee’, ma è solo innamorato del bisogno di legarsi ad un ideale. Non c’è mai nel suo agire il senso di un’evoluzione interiore e più è radicato il suo intimo immobilismo più urge il bisogno di rispondere con l’iperattività del movimento esteriore, con le esplosioni violente, anche coi pestaggi fatti con le catene di ferro e le chiavi inglesi. Accio compie spesso azioni che non esiteremo a definire turpi, ma poiché le compie con spirito infantilmente picaresco risulta, ai nostri occhi, sempre innocente. E la sua innocenza giustamente incazzata diventa il contraltare ideale delle colpe reali di tutto un periodo.
Luchetti, affascinato da questo lato del personaggio è, però, costretto a lavorare sulle immagini ed è difficile con esse, dare il senso di un personaggio che cresce esteriormente, ma non cambia interiormente. Occorrono artifici retorici che contrastino con la scelta obbligata di utilizzare due attori (entrambi superbi) uno per l’Accio bambino dell’inizio ed un altro per l’Accio adolescente e poi adulto di quasi tutto il film.
Il primo è quello di mascherare l’ellissi degli anni che passano tra l’ultima scena dell’infanzia e la prima dell’adolescenza con la continuità di un’azione (quella del pestaggio di Manrico che non accetta che il fratello possa essere fascista). Il secondo è quello, simbolico, di far incontrare alla fine del film, in una stessa inquadratura, l’Accio bambino con quello adulto quasi a rimarcare la sostanziale identità tra le due diverse età del personaggio.
Ma nell’alba che chiude la pellicola questo incontro sembra più ribadire il senso di un percorso compiuto e una distanza che non un’ideale specularità.
L’altra soluzione adottata da Luchetti, per tentare di rendere l’immobilismo interiore del personaggio è quella di ricorrere ad una narrazione volutamente frammentata che contraddice pesantemente la cornice di un discorso orientato, invece, sul modello romanzesco del racconto di formazione. Questa contraddizione in termini è la cosa che disorienta di più della pellicola e meriterebbe, da sola, un discorso a parte.
In questa logica spezzettata si perde, però, la splendida continuità del gesto romanzesco di Pennacchi. E, soprattutto, si perde il senso dell’innocenza indubitabile di Accio. Luchetti è costretto così, ad addolcire le esplosioni violente del personaggio e a non fargli fare mai cose troppo ‘cattive’.
Sicché assistiamo a strani stravolgimenti di intenzioni. Accio si dà al suo primo pestaggio quando è ancora in collegio e un bambino gli mostra un certo interessamento omosessuale. Nel romanzo l’omosessualità latente del monastero è un dato acclarato e Accio è inizialmente troppo ingenuo per rendersene conto, ma successivamente matura persino qualche personale fantasia su un morettino di cui non conosciamo il nome. Il romanzo tocca la verità di una figura inerme ed ingenua anche e soprattutto nelle esplosioni violente. Il film, viceversa, ci compone, fin da subito, lo stereotipo del fascista integrale. Più tardi sarà la volta dei comunisti.
Il personaggio di Pennacchi è così, finito tristemente nel cestino, ma al suo posto, sullo schermo, prende vita solo un compromesso. Spesso abbastanza odioso.
(Mio fratello è figlio unico); Regia: Daniele Luchetti; sceneggiatura: Sandro Petraglia, Stefano Rulli, Daniele Luchetti; fotografia: Claudio Collepiccolo; montaggio: Mirco Garrone; musica: Angelo Giovagnoli; interpreti: Elio Germano (Accio), Riccardo Scamarcio (Manrico), Angela Finocchiaro (Madre di Accio), Massimo Popolizio (Padre di Accio), Luca Zingaretti (Mario Nastri), Ascanio Celestini (Padre Cavalli), Anna Bonaiuto (Bella), Claudio Botosso (Prof. Montagna), Diane Fleri (Francesca) produzione: Cattleya, Babe Films; distribuzione: Warner Bros; origine: Italia, 2007; durata: 100’; webinfo: Sito ufficiale
