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Mirrors - Riflessi di paura

Pubblicato il 7 ottobre 2008 da Alessandro Izzi
VOTO:


Mirrors - Riflessi di paura

In Jurassic park Spielberg unì in un’unica inquadratura due interdetti del cinema orrorifico: un uomo viene divorato da un tirannosauro proprio mentre cerca rifugio in un bagno, luogo da sempre percepito dall’americano medio come sacro ed assolutamente inviolabile.
Il geniale regista di War of the worlds, insomma, se da una parte sfondava i limiti tecnici del genere (poteva, grazie al computer, rappresentare il pasto senza stacchi di montaggio applicando il piano sequenza alla messa a morte di un personaggio sia pure secondario), dall’altra violava un tabù ancora forte nella cultura americana: l’invasione della proprietà, del sacro suolo americano compiuta dall’irrazionale e dallo spaventoso rappresentata dal bagno.
Poco importa che già Hitchcock avesse sfondato questi limiti sia in Psycho (con l’ormai celeberrima scena della doccia) che in Gli uccelli (che ribalta in catastrofe cosmica il delitto di Norman Bates) perché in Spielberg questa invasione assumeva contorni nuovi, prendeva la dimensione di una battuta di spirito, di un joke rivolto verso un pubblico che voleva essere, sì, spaventato, ma non senza una sapiente iniezione di ironia. A veder quell’uomo seduto sulla tazza di un water, il pubblico non poteva fare a meno di ridere: l’ultimo tabù, dopo che la doccia era diventata il luogo inflazionato dei delitti, era stato attraversato senza che nessuno se ne fosse accorto. Di lì in poi nessun assassino si sarebbe più premunito di aspettare l’espletamento dei bisogni fisiologici della propria vittima prima di attaccarla.
Mirrors – Riflessi di paura va oltre il passo avanti spielberghiano. Nel mettere in scena l’invasione dell’altro, del mostro, nel sacro suolo della proprietà privata americana, fa a meno anche del filtro distanziante e rassicurante dell’ironia. Il male è ovunque, si è infiltrato in ogni intertizio del nostro vivere quotidiano, ha assunto le connotazioni degli oggetti di uso più comune: gli specchi, appunto. Di queste subdole superfici riflettenti ce n’è, in ogni città che si rispetti, un’abbondanza stratosferica. Sono il segno indelebile ed incancellabile della nostra vanità. Le troviamo nelle strade a far vetrate di palazzi. Ci guardano dalle vetrine dei negozi quando riflettono l’immagine del nostro desiderio proprio sopra quel prezzo che è ben più alto del contenuto del nostro portafogli. Le nuove torri di Babele, ormai, le lastrichiamo di specchi: perché che altro erano, in fondo, le Torri gemelle se non due steli che, specchiando le nuvole del cielo, volevano significare la grandezza dell’uomo che le aveva progettate e costruite e poi fatte franare nell’abominio e nel sangue?
E poi di specchi sono pieni i nostri bagni. Più che in Jurassic park ci riflettono l’immagine della nostra fragilità e un po’ ci giudicano mentre noi passiamo frettolosamente prima della doccia (ed è qui che Aja costruisce la sua scena più scioccante).
L’impudico ricettacolo della nostra intimità, l’immagine riflessa con cui spesso parliamo quando proprio abbiamo bisogno di un interlocutore per le nostre confidenze, si fa mostro spaventoso e malevolo. E il vero mostro, alla fine, siamo noi perché all’interno di un film è impossibile distinguere a primo sguardo un’immagine dal suo riflesso nello specchio entro cui guarda. Sono fatti della stessa sostanza d’incubo.
Al cinema la vera immagine allo specchio resta un interdetto impossibile perché essa comprenderebbe, nell’arco dello sguardo, anche la macchina da presa che riprende la scena: direbbe una verità in un mondo di menzogne.
Così la parabola di Aja si muove su tre binari contemporaneamente.
Sul piano individuale mette in scena la fine di ogni certezza.
L’uomo americano, pare dirci il film, deve smetterla di pensare che la minaccia arriva dall’esterno e che punta a sfondare le sacre mura di una casa oggetto. È la casa stessa, attraverso gli specchi con cui è arredata a dirci che il male siamo noi coi nostri figli che uccidono i genitori e coi nostri genitori che uccidono i figli. La famiglia non è più baluardo contro il male, ma ricettacolo di orrore. Inutile, quindi, chiudersi dentro ed aspettare.
Sul piano collettivo mette in scena una società pervertita nel midollo. Lo specchio riflette il nostro consumismo sfrenato, la nostra sete di possesso. L’orrore prende corpo in un vecchio grande centro commerciale divorato dalla fiamme della nostra cupidigia. In esso possiamo vedere riflessa, come già nel remake di Hills have eys dello stesso regista, l’immagine della fine della nostra civiltà. Sembrava un horror ed era, invece, fantascienza.
Sul piano teorico, infine, il film ci parla dell’ambiguità dell’immagine, della sua capacità di essere sé e il suo contrario. L’utopia di una messa in scena impossibile resa reale solo dagli effetti speciali.
Peccato che questi tre piani prendano corpo in un racconto che segue troppo da vicino la dinamica narrativa di The ring (investigazione, agnizione, epilogo)! Peccato perché le letture metaforiche risentono di una sceneggiatura che forzosamente abbandona troppo sovente le sue strade originali in favore di un modello collaudato.
Peccato, infine, perché il tutto era aperto da una delle sequenze titoli più vertiginose e belle di questi ultimi anni. Un capolavoro che sembrava un omaggio in nero alle sinfonie di Rutmann.


CAST & CREDITS

(Mirrors); Regia: Alexandre Aja; sceneggiatura: Alexandre Aja, Gregory Lavasseur; fotografia: Maxime Alexandre; montaggio: Baxter , Jon Chang; musica: Javier Navarrete; interpreti: Kiefer Sutherland (Ben Carson), Paula Patton (Amy Carson), Frank Mayers (James Benton), Matt Neufeld (James Benton), Cameron Boyce (Michael Carson); produzione: Castel Film Romania, New Regency Pictures, Regency Enterprises; origine: USA, 2008; durata: 110’; webinfo: Sito ufficiale


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