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Missione 3 D: Game over

Pubblicato il 19 dicembre 2003 da Alessandro Izzi


Missione 3 D: Game over

Spy kids 3: Game over si presenta ai nostri occhi come un vero e proprio frullatore virtuale di generi e stili, un crescendo quasi rossiniano di immagini e colori che sembra non voler conoscere o concedere mai un momento di requie. In realtà, a setacciare nella ridda indifferenziata di immagini che costituisce la superficie bidimensionale del film, ci si trova di fronte a tutta una serie di segnali, di veri e propri “indicatori” che rivelano, all’interno del progetto, la presenza di una concatenazione di discorsi e di problemi aperti (stilistici quanto contenutistici) che cercano di trovare un proprio punto di fusione nell’ironia metariflessiva che sostanzia il tutto. Tale autoironia, continuamente esibita, finisce per creare un terreno fertile al continuo ed insistito straniamento dall’azione rappresentata, una forma di non immedesimazione resa ancora più efficace proprio dalla velocità con cui si succedono eventi e situazioni. In questo modo lo spettatore è costantemente rimosso dalla propria posizione di osservatore passivo delle vicende che scorrono sullo schermo ed obbligato a trovarsi, rispetto al film, in una posizione franca, in una no man’s land né dentro, né fuori la storia. La tridimensionalità (fastidiosa e non sempre utilizzata nel migliore dei modi ad onor del vero) acuisce questa impressione di distanza dal racconto e, lungi dall’amplificare il senso di immedesimazione grazie alla sua profondità, esaspera proprio una precisa impressione di non realtà. In questo modo lo spettatore finisce per assumere una strana posizione all’interno della scacchiera costituita dagli spazi narrativi della pellicola e questa posizione si rivela più ambigua e problematica di quanto non appaia a prima vista. Se partiamo dal principio che lo spettatore (e il mondo reale della sala di proiezione) sono il primo gradino della “scalinata narratologica” del film, allora si deve supporre che lo spazio del mondo reale del film (quello di Juni e della famiglia Cortes) sia il secondo gradino. Si tratta di un mondo bidimensionale, straordinariamente cartoonistico e tutto centrato su una serie di suggestioni esplicitamente ed ironicamente cinematografiche (le prime sequenze sono un palese omaggio al noir degli anni ’40). Un luogo in cui quella che riconosciamo come realtà sul piano del primo gradino è soggetta ad una distorsione espressiva, ad un sovraccarico di falsa illusione: è il mondo del Cinema, un mondo non a caso bidimensionale. Passato questo spazio si apre poi una zona franca, intermedia: la prigione del Giocattolaio (figura Carroliana efficacemente interpretata da Stallone) che altro non è se non una sorta di passaggio intermedio tra il mondo del film e quello estremo (perché estrema è la anche la carica di non realtà esasperata dalle tre dimensioni) del gioco. Questo ambiente apicale è quello, però che paradossalmente rivela un inaspettato punto di contatto con il mondo dello spettatore e non solo perché con questo condivide la naturale tridimensionalità. Quando i personaggi del mondo del film, infatti, guardano al mondo del gioco, è verso lo spettatore che volgono lo sguardo e noi, in platea, siamo obbligati ad assumere la scomoda posizione di controcampo virtuale dei personaggi del film. Siamo, in altre parole, la soggettiva del videogioco che guarda verso il film da dietro un quasi tangibile schermo televisivo/cinematografico. In questo modo gli spazi narrativi finiscono per disporsi in una sorta di cerchio tridimensionale in cui il polo della falsità coincide con quello della realtà dello spettatore e dove il passaggio da un ambiente all’altro determina una serie di smascheramenti ironici in cui niente è quello che sembra. In questa prospettiva la stessa tirata finale sul valore della famiglia (qui una famiglia molto allargata perché, come dice Gerti Giggles all’inizio del film: “Famiglia è tutte le persone che incontri”) assume una dimensione ulteriore. Perché la famiglia di cui ci parla oggi Rodriguez non è quell’astrazione incerta che traspariva dai primi due film, ma è un luogo d’incontro tra persone che si riconoscono consanguinee nello spirito. Una famiglia composta oltre che da Rodriguez da Antonio Banderas e George Clooney, da Carla Gugino e Salma Hayek, da Matt O’Leary ed Elijah Wood, da Bill Paxton ed Alan Cumming: tutte persone che, dopo aver lavorato con il regista una volta, accettano di tornare su un suo set sia pure per una brevissima apparizione. Viandanti incrociati per strada e divenuti, col tempo, membri di un clan eterogeneo reso omogeneo dall’amicizia. Resta da vedere, comunque, se l’idea rodrigueziana di spalmare la complessità sulla superficie in movimento del film sia adeguata per le nuove generazioni cui si rivolge, ma a noi, a questo punto, non resta che auguraci che l’America di Bush incassi il messaggio che comunque c’è e faccia tesoro.

(Spy kids 3: Game over); regia: Robert Rodriguez; sceneggiatura: Robert Rodriguez; fotografia: Robert Rodriguez; montaggio: Robert Rodriguez; musica: Robert Rodriguez; interpreti: Antonio Banderas, Carla Gugino, Alexa Vega, Daryl Sabara, Ricardo Montalban, Holland Taylor, Mike Judge, Matt O’Leary, Emily Osment, Elijah Wood, Sylvester Stallone; produzione: Troblemaker studios; distribuzione: Buena Vista International

[dicembre 2003]

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