Moon

Nel quarantesimo anniversario della discesa - o della ascesa, se si preferisce - dell’uomo sulla Luna, è sulla faccia nascosta del nostro satellite, sulla sua parte oscura, ignota e ancora più lontana, che l’alienazione del lavoro e della solitudine si incontrano con la ricerca di un rapporto che sia umano: il freddo si congiunge a un calore tiepido, per un film di fantascienza che cerca nella completezza di un discorso sull’Uomo la sua ragion d’essere.
Esordio alla regia per il trentottenne inglese Duncan Jones (proveniente dal mondo dei videoclip e dei commercial), già accolto all’interno dell’ultima edizione del Sundance, Moon è tratto da un soggetto scritto dallo stesso cineasta, ispiratosi a un libro dell’ingegnere aerospaziale Robert Zubrin, Entering Space: Creating a Spacefaring Civilization, il quale ipotizza quali possano essere i ritorni economici che potrebbero spingere in alto gli investimenti nell’esplorazione e nella colonizzazione del sistema solare. E una realtà ipotetica diviene qui un’ipotesi di realtà, in una pellicola ambientata in un futuro non lontano, dove la compagnia ’Lunar Industries Ltd’ sfrutta le riserve di Elio-3 di cui la Luna è ricca per assicurare alla Terra energia pulita in grande quantità. Tutto ciò grazie a tre grandi macchinari dall’evocativo nome di ’Mietitori’ che si muovono un po’ inquietanti nel loro procedere con lenta e quasi inconsapevole inerzia, setacciando la grigia superficie lunare. Sabbia sulla quale riposa ’Sarang’, la base abitata da un unico uomo, Sam Bell (Sam Rockwell), che gestisce tutto il lavoro, aiutato dal computer Gerty (che nella versione originale ha la voce di Kevin Spacey). Mancano ormai pochi giorni alla fine del turno di Sam, un servizio durato ben tre anni e ricco più che altro di una noiosa quotidianità: unici compagni, oltre al fidato Gerty, i videomessaggi scambiati con la moglie Tess e la figlioletta Eva e con i boss della Lunar, tutte comunicazioni in differita a causa di persistenti problemi con l’antenna radio. In quegli ultimi giorni, però, la salute dell’uomo, in particolare quella mentale, comincerà a dare segni di un cedimento attraversato da allucinazioni. E dopo un incidente che sconvolgerà ancor più quella situazione, Sam incontrerà un suo doppio, grazie al quale, però, lentamente comprenderà quale sia la sua condizione, lassù, sulla Luna. Qualunque sia il vero Sam.
Anche Space Oddity, la celebre canzone pubblicata nel 1969 da David Bowie (tra parentesi, padre dello stesso Duncan Jones) parlava della solitudine nello spazio, nello specifico quella del Major Tom che è stato uno dei figli del viaggio di 2001: Odissea nello spazio, per un itinerario che si è spinto fin dentro l’isolamento e il senso di abbandono. Ma per quanto era splendidamente eccentrico l’arrangiamento di quell’immortale brano, tanto scarno è il lavoro del giovane Jones, una pellicola low-budget che ha potuto disporre di soli cinque milioni di dollari. Il risultato è stato un interessante approccio al cinema di fantascienza che si allontana da una certa odierna tendenza, privilegiando piuttosto un aspetto delicato e intimista - proseguendo su una strada molto inglese, si potrebbe dire - intraprendendo un cammino che, nelle parole dello stesso regista, lo ha tenuto lontano dalla fantascienza frivola adatta agli adolescenti che ha contraddistinto le ultime due decadi, segnate come da un imbarazzo verso la prospettiva di confrontarsi con il lato filosofico insito nel genere.
Mentre Moon non nasconde le sue citazioni più o meno evidenti, richiamando opere della fantascienza matura, quella umanistica amata da Jones, tra cui Kubrick e Tarkovskij, 2002: la seconda Odissea e Atmosfera zero (in particolare il discorso politico che sottende quest’ultimo esempio), fino agli Inseparabili di David Cronenberg. Ma, nonostante ciò, Moon è un film che si denuda pian piano, portando allo scoperto il nocciolo della questione senza alcuna fretta, capace di vivere di vita propria e di guardare al passato anche attraverso un dècor composto di una concretezza carica di linee spigolose, ribadendo così la propria estraneità a tanto cinema odierno e riuscendo, lungo tale via, ad ammantarsi ancor più del mistero che contraddistingue i mondi lontani, un futuro che, degno figlio del nostro presente, non vuole apparire come un luogo troppo accomodante. E il film diviene come quell’universo che porta in scena, contraddistinto dalla stasi in cattività che ammorba una parte dell’Uomo e il desiderio che questa ha di fuggire, parimenti dosando e gestendo bene i tempi all’interno delle sezioni che compongono la pellicola e lasciando pieno spazio al one-man show che mette in mostra l’estrema bravura di un Sam Rockwell che disegna un viaggio mentale e fisico in un’esperienza nuova tra timori, tradimenti e paranoie, asservimenti, paure e dolori, stanchezza, vecchiaia e nuovi vigori, rinascita e un senso di sacrificio e di riscatto per gli esclusi, in un film che non è solo un buon esordio, ma soprattutto un’opera che parla della realtà dei nostri giorni e che costituisce il segno di un possibile divenire, ma con la speranza che possa altresì rappresentare un avvenire diverso, anche per la Science Fiction. Affinché non tutti possano pensare che «There is no dark side of the moon really. Matter of fact it’s all dark».
(id); Regia: Duncan Jones; sceneggiatura: Nathan Parker; fotografia: Gary Shaw; montaggio: Nicolas Gaster; musica: Clint Mansell; interpreti: Sam Rockwell (Sam Bell), Dominique McElligott (Tess Bell), Rosie Shaw (Eve da piccola); produzione: Liberty Films UK, Xingu Films e Limelight; distribuzione: Sony Pictures Releasing Italia; origine: Regno Unito, 2008; durata: 95’; web info: sito ufficiale.
