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Morfologia del teen-drama: Che ne sarà di noi?

Pubblicato il 15 novembre 2007 da Giampiero Francesca


Morfologia del teen-drama: Che ne sarà di noi?

“E’ l’impietosa serialità intrinseca, la mancanza di idee e di coraggio che rende questo filone paratelevisivo un micidiale frullato di nulla”. Federico Pedroni, FilmTV anno 15 n. 45

E’ davvero l’impietosa serialità intrinseca del teen-drama, il suo rapporto diretto con la televisione, a rendere questo sottogenere un frullato di nulla? O forse è il nostro cinema a non capire e non gestire al meglio le potenzialità di una materia tanto interessante quanto l’adolescenza?

Per cercare di capire meglio il soggetto della discussione facciamo un po’ di chiarezza. Anche se la storia del cinema e della televisione è da sempre ricca di film, serie, prodotti per gli adolescenti, i canoni del teen-drama assumono una loro identità precisa nel 1990 grazie all’opera di Aaron Spelling Beverly Hills 90210. Certamente influenzato da pellicole come American Graffiti o Risky Business e da serie precedenti come Happy Days, Spelling realizza però un nuovo ibrido, “un genere che è insieme messinscena del mondo dei giovani e prodotto a loro espressamente destinato”*. Grazie al successo di serial come questo gli anni ’90 divengono, sia per il piccolo che per il grande schermo, la vera Golden Age dei teen-drama.

Basato su caratteri e canoni fissi, ma al tempo stesso universali, i dramedy made in Usa riescono a coinvolgere e far immedesimare milioni di ragazzi. Come potevano essere in passato i libri di Kerouac o Il giovane Holden di Salinger, oggi Dawson’s Creek (per la televisione), She’s all that (Kiss me), Le 10 cose che odio di te rappresentano una vera esperienza formativa. Esperienza che viene vissuta in modo diretto dagli adolescenti proprio grazie all’universalità dei personaggi e delle situazioni narrate. Ed è proprio qui che le nostre pellicole cedono il passo. Mentre gli sceneggiatori americani mettono in scena non-luoghi assoluti (i corridoi di una scuola, la camera del ragazzo, il locale di riferimento), anonimi ma al tempo stesso riconoscibili in ogni angolo del globo, il cinema italiano si chiude nei suoi confini, spesso all’interno di una città se non di un singolo quartiere (quasi sempre la Roma radical-chic). Un esempio lampante può essere visto nel capostipite dei teen-drama italiani, Come te nessuno mai di Gabriele Muccino. Se da un lato, infatti, le pellicole americane si perdono in un ovunque cinematografico fatto di villette a schiera e scuole identiche fra loro, i Muccino bros., insieme alla sceneggiatrice Adele Tulli, costruiscono un piccolo glossario dei termini romani (dalle zecche ai precisi) che racchiude il racconto nei confini del Raccordo Anulare di Roma.

Anche dal punto di vista delle maschere in scena il cinema italiano procede come un gambero. Prendiamo ad esempio il James Dean – Dylan McKay - Rebel without a cause Step di Tre metri sopra il cielo. Nel film di Lucini l’intero impianto narrativo si fondava sulla costruzione del protagonista, una sorta di bello e dannato di casa nostra in grado di rappresentare alla perfezione quella maschera. Che fine hanno fatto queste caratteristiche nel sequel, Ho voglia di te? Che ne è del suo personaggio? Se si prescinde, dunque, dalle situazioni e dai personaggi di ampio respiro, come si può pensare di comunicare, di parlare ad un pubblico vasto?
L’uscita nelle sale di Come tu mi vuoi di Volfango De Biasi pone infine l’accento proprio sulla capacità del nostro cinema di veicolare, attraverso il teen-drama, una propria versione del mondo e della realtà. La vera rivoluzione di Spelling, ripresa poi al cinema e in tv da autori come Kevin Williamson, è stata proprio quella di infrangere la barriera delle ipocrisie e parlare ai giovani, con il loro linguaggio e le loro emozioni, dei problemi e della realtà. L’operazione portata avanti da molte pellicole nostrane appare invece proprio l’opposto. Nel film di De Biasi, così come ad esempio anche in Last Minute Marocco di Francesco Falaschi, si cavalcano luoghi comuni, preconcetti, pregiudizi. Così l’Italia viene rappresentata come un paese di viziati e ignoranti, dove vince solo il nepotismo e il clientelarismo.

Mentre la cinematografia mondiale si sforza di aggiornare i canoni di un genere potenzialmente molto fruttuoso, sia culturalmente che economicamente, da noi si torna indietro. Autori come Sofia Coppola (il suo esordio, Il giardino delle vergini suicide, era, per molti versi un teen-drama) si cimentano con il genere, trasformandolo, come nel caso dello splendido Le regole dell’attrazione di Avary, o, come accade per la tv con Veronica Mars o Buffy, ibridandolo con altri generi. Anche grazie a questi film l’industria americana si alimenta, immettendo sul mercato decine di nuovi attori fra cui scegliere i divi di domani (controllate ad esempio le filmografie di Kristen Dunst e Scarlett Johansson). Noi intanto continuiamo a raccontare le stanche vicende della Roma da bere. Qui sì, mancano certo coraggio e idee.

Questo non vuole essere il discorso di una critica che si arrocca contro i prodotti commerciali, ma anzi una riflessione proprio per spronare chi scrive e produce cinema a pensare più in grande. I teen-drama sono prodotti a basso costo e dalle potenzialità economiche infinite (se si considera che il target sono i teenager). Perché, allora, realizzare film vendibili solo fra le nostre strette mura? Perché circondarci di quest’aria provinciale? Perché ridurci ad un micidiale frullato di nulla?

*Aldo Grasso, Buona Maestra



Giampiero Francesca


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