Mr. Long
Si è mangiato (o si sarebbe dovuto mangiare) molto in questa Berlinale, fra i film in concorso ce n’erano addirittura due intitolati The Dinner e The Party, i - non proprio disinvolti - protagonisti di Of Body and Soul scambiano le prime (pochissime) parole a mensa, molte parole invece vengono scambiate a tavola nel film coreano, poi c’è il tristissimo ristorante messo su dal protagonista nel film di Kaurismäki (solo sardine oppure polpette, e poi un non riuscitissimo tentativo poi di convertire la trattoria in ristorante giapponese), e il vorace pranzo di Giacometti in Final Portrait. Ma è in Mr. Long che il cibo, la cultura del cibo assume una funzione decisiva di civilizzazione. Il protagonista è un gangster, e il film inizia come un gangster movie, con una carneficina molto Bruce Lee che costringe il personaggio a cambiare aria, a lasciare Kaohsiung (Taiwan) per approdare alla volta di Tokyo. Ma anche qui lo ritrovano, lo feriscono, sembra anzi che ne abbia per poco, abbandonato in una zona desolata, fatta di catapecchie dismesse, lamiere contorte. E invece no: un bambino, che gravita da quelle parti, dolcissimo, si prende a occupare di lui, portandogli bende, cibo e abbigliamento. Scopriremo che è il figlio di una tossica, e anche lui è praticamente abbandonato. I due solidarizzano, il gangster si riprende, e si rivela un cuoco sopraffino: con i pochi ingredienti che gli ha portato il bambino ha imbastito una zuppetta che è una delizia. Da lì ha inizio la svolta del gangster: aiutato da un gruppetto di vicini, scurrili e fattivi, Mr. Long mette su un carrettino ambulante dove cucina cibo espresso nelle vicinanze di un tempio e in un batter d’occhio diventa famosissimo, il bimbo gli fa da assistente sciacquando le ciotole. A metà film conosciamo anche la mamma, con uno splendido flash-back, a sua volta pieno di ellissi, praticamente muto: una storia tragica fatta di amori perduti, dipendenza dalla droga e con un farabutto che la vuol tenere in schiavitù. Ma adesso lei sembra guarita, e anzi, molto timidamente, sta costituendosi una specie di nuova famiglia. Poi però il passato, tragicamente, ritorna e la donna ne fa le spese. Sul piano della struttura e dello stile Mr. Long è sicuramente uno dei film più originali e vari, visti a Berlino. Piace innanzitutto il silenzio di questo film, l’estrema parsimonia dei dialoghi; sarà che lo abbiamo visto a fine festival, dopo aver assistito a tante pellicole in pochi giorni, ma, a fronte delle chiacchiere sempre più ingombranti di molti film, questo laconismo riconduce il cinema alla autonomia del visivo, e le inquadrature di Sabu e del suo direttore della fotografia, fin dalle primissime scene, quasi documentarie di Kaohsiung, sono davvero notevoli, e i movimenti di macchina pure. Il silenzio è sì dovuto al carattere, almeno in partenza non particolarmente raffinato ed evoluto del personaggio che preferisce badare ai fatti, ma ha anche una sua ragion d’essere nello sviluppo della sceneggiatura (dove forse si poteva tagliare ancora qualcosina) e nelle difficoltà comunicative, linguistiche del cinese in una città giapponese.
Originali sono anche i momenti di straniamento comico, rappresentati dal gruppetto dei vicini, autentico controcanto grottesco, rispetto alla violenza dapprima latente e poi esplicita, ciò che raggiunge il proprio culmine in una scenetta di amatoriale teatro Kabuki.
E poi: in una Berlinale che, come da tradizione ha messo il dito nella piaga dei mali e dei dolori del mondo e della civiltà, della perversione dei rapporti umani e delle malattie della psiche, questo film ha regalato nella nascita e nello sviluppo del rapporto fra Mr. Long e il bambino autentici momenti di poesia.
(Mr. Long). Regia: Sabu sceneggiatura:Sabu ; fotografia: Koichi Furuya; montaggio: Georg Petzold; interpreti: Cheng Chang (Long), Sho Aoyagi (Kenji), Yiti Yao (Lily), Runyin Bai (Jun); produzione: Live Max Film, Tokyo, LDH Pictures, Tokyo, BLK2 Pictures, Hong Kong, Kaohsiung Film Fund, Taiwan, Rapid Eye Movies, Colonia origine:Giappone, Cina, Taiwan, Germania; durata: 129’.