Munich
C’è qualcosa di tragico e sublime nella recente evoluzione della poetica di Steven Spielberg; un qualcosa di doloroso e sotterraneo, di non tanto facilmente definibile che sembra scavare sotto la crosta dorata dell’immagine andando a rivelare al suo interno contraddizioni stridenti, conflitti di idee e lancinanti incertezze.
Sembra definitivamente tramontato, a guardare un film come Munich, il periodo fanciullesco delle favole belle e delle avventure senza rischio che, in parte, avevano colorato quasi tutti i film più maturi del regista americano. Sembra che non ci sia più spazio per il sogno, per l’incanto, per la capacità di stupirsi che tanto ci aveva ammaliati regalandoci una consolazione ai nostri timori quotidiani.
Certo parlare di un nuovo Spielberg appare, qui, fuori luogo perché tutti i suoi ultimi film, benché più cupi e sofferti dei precedenti, sono comunque una naturale prosecuzione di un discorso quanto mai coerente. Eppure a ripensare a certi titoli ormai entrati nel mito collettivo come E.T. o Incontri ravvicinati del terzo tipo si ha l’impressione che davvero il regista abbia perso l’innocenza del sogno ad occhi aperti e che quel mondo che premeva, con le sue contraddizioni, ai lati dello schermo cinematografico (e che non poteva mai essere davvero del tutto dimenticato) sia riuscito definitivamente ad infiltrarsi nel gioco di luci e di ombre del film reclamando il suo tributo di orrore.
Si guarda Munich con lo stesso sguardo con cui si guarda un bambino che smette di credere a Babbo Natale e ci si accorge, in prospettiva, che anche prima, quando ancora aspettava, di notte, vicino al camino lo scampanio di cristallo della slitta, un germe di dubbio era sempre calato sui suoi occhi ad offuscarne lo sguardo.
È passato, insomma, il tempo in cui anche il confronto con l’orrore della storia poteva in extremis prendersi il lusso di cedere il passo alla catarsi positiva. Il finale a colori di Schindler’s list in cui storia e finzione potevano ancora prendersi per mano e indicare una strada (non importa quanto impervia) si allontana sotto i nostri occhi inquieti e quello che resta sembra essere senza speranza alcuna.
Se è vero che tutto il cinema di Spielberg è la storia eterna del bisogno dei personaggi (e, quindi, dell’autore) di trovare una qualche forma di rifugio, un qualsiasi luogo, anche dello spirito, da poter chiamare casa, allora Munich segna davvero il passo di un punto di non ritorno nella poetica del regista.
Non c’è niente, per Avner, il protagonista di questa storia tormentata di vendetta e segreti, che possa apparire sia pur lontanamente come una casa vera. La storia del film, come del resto il già citato Schindler’s list, è il racconto di una progressiva perdita di “centro” e di “senso”, la narrazione della tragica accettazione di una condizione esistenziale definitivamente sradicata da ogni contesto socio/culturale. Nel nomadismo estremo cui sono condannati i membri di questo assurdo team di spie ingaggiate per uccidere i terroristi responsabili dell’omicidio degli atleti israeliani durante le olimpiadi di Monaco del 1972, si assiste ad una riduzione all’estremo dello spazio vitale dei personaggi. Dalla quiete domestica della prima cena del gruppo in una normale e borghese camera da pranzo, alle anonime e provvisorie camere d’albergo entro cui programmare le azioni terroristiche, al vuoto disperato dell’armadio entro cui Avner spera di poter dormire quando comincia a temere per la sua stessa vita. Da un certo punto in poi "Casa" diventa un altrove che è possibile contemplare solo a distanza, quasi fosse una vetrina di un negozio di mobili dai prezzi ormai inaccessibili.
Non c’è rifugio all’orrore della storia, non c’è nessun modo di allontanare lo sguardo dal tacito incubo della spirale di violenza nella quale siamo calati da ben prima del fatidico 1972. Anche quando la moglie, in un pietoso tentativo di riportare a sé e nella quiete domestica di New York il marito, gli pone le mani davanti agli occhi con il sottaciuto invito a non guardare più, questi restano spalancati nel buio tra le dita a contemplare un orrore che è ormai scavato nella mente e non ha più bisogno dello sguardo.
Neanche la ricomposizione della famiglia nel prefinale del film riesce a segnare un momento di sia pur parziale catarsi positiva. Anche se il breve primo piano del bambino desiderato ed amato è, per Avner, come una sirena che lo invita a sciogliere il conflitto interiore e a trovare pace, non c’è reale soluzione perché resta la consapevolezza di quanto sia precario ed instabile quel toccante rifugio.
Come in Duel, anche in Munich il finale non cerca le lusinghe di una ricomposizione sia pure apparente (si pensi ancora al finale di La Guerra dei mondi), ma resta sospeso nel vuoto, a contemplare l’impossibilità di un ritorno al prima dell’innocenza e dell’avventura. E l’inquadratura finale sulle torri gemelle che si stagliano su un orizzonte triste rilancia al futuro l’avverarsi di paure sempre maggiori.
Resta alla fine un messaggio utopico, tutto rivolto allo spettatore: l’invito a smettere di leggere la Storia con l’occhio della statistica e di cominciare a ridare un volto ed un passato ai suoi spesso inconsapevoli artefici. C’è una scena, in questo senso esemplare: quella (ripresa da Schndler’s list) in cui i servizi segreti israeliani trovano i nomi e le foto dei possibili artefici dell’attentato agli atleti. Un classico montaggio alternato mette in comunione queste foto e questi nomi con i volti delle vittime di un attentato brutale la cui visione ci è negata fin quasi alla fine del film. Martiri e assassini (presto immolati anch’essi nel nome di una vendetta che perpetua se stessa) sono messi insieme in un unico gesto registico. Ed è in questa voluta confusione di dati, in uno spazio dove diventa impossibile distinguere i “buoni” dai “cattivi” che prende corpo un discorso esistenziale che diventa ben presto un vero e proprio gesto politico. Non stupisce, allora, che per la sua posizione super partes (né per Israele, né per i palestinesi) il film finisca per scontentare tutti ed alimentare un’ondata di polemiche. Nè stupisce che la sua visione critica finisca per ribaltarsi anche sull’attuale politica estera statunitense.
Se c’è una cosa che stupisce in questo film superbamente scritto e magnificamente fotografato, questa è solo la sua apparente adesione ad un genere ormai abbastanza in disuso come la spy story. Ma a ben vedere Munich è tanto una classica spy story quanto The Terminal era una commedia romantica vecchio stampo.
(Munich); Regia: Steven Spielberg; sceneggiatura: Tony Kushner e Eric Roth (tratta dal libro Vengeance di Gorge Jonas); fotografia: Janusz Kaminski (asc); montaggio: Michael Kahn; costumi: Joanna Johnston; scenografie: Rick Carter; musica: John Williams; interpreti: Eric Bana (Avner), Daniel Craig (Steve), Ciaran Hinds (Carl), Mathieu Kassovitz (Robert), Hanns Zischler (Hans), Geoffrey Rush (Ephraim); produzione: Kathleen Kennedy, Barry Mendel, Steven Spielberg, Colin Wilson; distribuzione: UIP; origine: Usa, 2005; durata: 150’; web info: Sito ufficiale