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Mystic river: muto e povero

Pubblicato il 19 ottobre 2003 da Andrea di Mario


Mystic river: muto e povero

La struttura semplificata, sobria, rastremata, vera professione stilistica di Eastwood, sembra raccogliersi ancora più nella tecnica del montaggio parallelo, messo a punto nei capolavori di Griffith, regista eponimo del cinema americano. Già in Fino a prova contraria (True Crimes, 1999), Eastwood ha utilizzato questo espediente narrativo, caratterizzando fortemente il pathos della forma. Ancora di più stavolta, dove si vede con ancora maggiore chiarezza come esso non caratterizzi solamente il climax della saga poliziesca. Il dramma del film si distende tutto in questo crescendo, nel quale domina niente altro che il significato di una irriconciliabilità, senza giudizi e senza colpe. La breve lassa in cui i protagonisti, da adulti, rivivono per un istante la situazione di separazione iniziale (l’episodio dell’adescamento del loro amico) non ha funzione di chiusura ciclica, semmai quella di registrare a un grado più marcato questo significato. Ancor più, tutta la pochade della parata finale, dove viene dimostrato, senza allucinazione, che forse tutta l’esistenza vera è lo svolgimento di un errore determinato da una frattura iniziale, di qualunque natura essa sia. Le vittime scontano questo errore, come avviene per Dave (Tim Robbins), il ragazzino segnato dall’episodio violento. Scespirianamente il momento in cui Dave può sfogare tutta la sua frustrazione coincide con l’equivoco della sua colpevolezza (proprio lui, vittima, vissuto solo con la verità di essere stato distrutto) che accetta come occasione per lasciarsi uccidere proprio dal suo amico. Agli altri non resta che scoprire questo errore che cancella tutta la loro vita. Forse non il miglior film di Eastwood ma sicuramente quello in cui il portato esistenziale viene dimostrato meglio perché lo fa coincidere con la disappartenenza alla vita stessa. Niente come la struttura del montaggio parallelo può dimostrare questo, orizzontalmente, senza sconti né aggiunte. Con esso non si fa altro che mostrare, anzi, disporre, come nelle prescrizioni comunicative della retorica classica. Siamo all’opposto dalle costruzioni dei finali “d’autore”, dove il significato si arrovella, si condensa per sprigionare significati ulteriori quasi a cercare l’indeterminatezza. In questo Eastwood sembra muoversi come James Laughlin (1914-1997), poeta americano che ha scelto di restare “minore” proprio per conservarsi vitale: Provo un certo orgoglio / per il fatto che nei miei versi / non è difficilissimo vedere / quel che sto cercando di dire. Questa narrazione a “basso dosaggio” dimostra poi attitudine verso le risorse genetiche, ma anche un po’ primitive del cinema, nelle quali, forse, molto rimane fuori e quel che rimane dentro può risultare debole e posticcio ma indubbiamente soggetto a una “attiranza” formale unica. Eastwood è uno dei pochi ormai a sezionare la materia viva in questo modo, come potrebbe fare De Oliveira altrettanto. La sua originarietà è dimostrabile proprio nella semplificazione dei dialoghi, nel loro sopravvivere al silenzio delle immagini che nascono per comunicare da sole, mute.


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