Na putu - Berlino 2010 - Concorso

D’accordo che è l’edizione del sessantennale, ma quest’anno la Berlinale tende un po’ troppo ad auto-celebrarsi. Non solo il festival è stato aperto da un regista che aveva vinto qua nel 2007 (Wang Quan’an), ma in concorso sono presenti numerosi film di autori che alla Berlinale ci erano già stati (Christensen, Kaplanoglu, Pitts, Winterberg, Wakamatsu, Winterbottom) e che magari avevano vinto, come Jasmila Zbanic nel 2006 con Il segreto di Esma. Quest’anno la trentacinquenne regista bosniaca ha presentato il suo secondo lungometraggio, Na putu (In cammino), un’opera dignitosa ma decisamente inferiore rispetto al film precedente, a cui pure almeno in parte si riconnette per la location (Sarajevo), la centralità della figura femminile e il peso del passato.
Solo in apparenza Luna e Amar, trentenni di Sarajevo di origine musulmana ma abbondantemente laicizzati, sono una coppia funzionale, lui beve un po’ troppo, lei pure sembra in crisi, prova ne sia che passa il suo tempo libero davanti allo specchio con la telecamera del cellulare ad esaminare i tratti del proprio volto, la bocca, gli occhi, quasi a volersi sincerare della propria identità. Vorrebbero un figlio, ma non viene. Anche il lavoro non sembra niente di che: lei, con gesti meccanici, fa l’hostess per la compagnia di bandiera bosniaca, lui fa il controllore di volo all’aeroporto di Sarajevo. Fin quando, per le ragioni di cui sopra (alcool), Amar viene sospeso. Ed è qui che l’equilibrio già precario salta del tutto, perché il protagonista ritrova un vecchio compagno d’armi, divenuto un musulmano ortodosso che con la promessa di un posto di lavoro lo introduce nel suo gruppo di ispirazione salafista; ciò porta Amar ad una trasformazione radicale: non beve più, si veste con abiti scuri, comincia ad essere ossessionato dall’idea del peccato, condanna i riti dell’islamismo laicizzato e, al pari dei suoi confratelli, si rifiuta di stringere la mano alle donne (quelle salafiste portano, ovviamente, il burka). Per bocca di alcuni personaggi minori il film insinua addirittura il sospetto che tutto ciò sia una copertura per azioni terroristiche, che la comune rousseauiana sul lago di Jablanica, dove si radicalizza lo scontro fra Luna e Amar, sia solo una copertura per un campo paramilitare. Nulla di tutto ciò; basta quello che vediamo per capire che il percorso avviato da Amar lo ha portato a distanza siderale dalla sua compagna, al punto che quando, contro ogni aspettativa, la ragazza resta incinta, l’idea di crescere un figlio accanto a un uomo del genere non le pare proprio sostenibile. Na Putu è un film un po’ meccanico, capace tuttavia di negoziare sia il presente (per esempio: la congiuntura favorevole, rispetto anche solo a dieci anni fa, per tutte le forme di integralismo religioso, non solo in area musulmana) che il passato dei personaggi. Tutto lascia pensare che Amar sia affetto, ancora a distanza di anni, da quello che in gergo si chiama PTSD, vale a dire “post-traumatic stress disorder”, che cioè, al di là delle apparenze, non abbia più ritrovato un ubi consistam all’indomani della guerra. E, sia pure un po’ tardi, quasi soltanto nei titoli di coda, apprendiamo che anche Luna ha alle spalle il trauma della morte dei genitori trucidati in mezzo alla strada, il trauma della perdita della propria casa, delle proprie radici (anche se le è rimasta la vecchia nonna, ultimo baluardo di una Heimat identitaria). Per paradosso proprio il cammino intrapreso dal compagno la porta tuttavia dopo anni di rimozione a confrontarsi con quella perdita, ciò che culmina con il breve nostos a Bjeljina, una sequenza liquidata troppo sbrigativamente dalla sceneggiatura.
Oltreché dall’Austria e dalla Germania il film è stato co-prodotto da Bosnia e Croazia e fra gli attori ci sono anche degli sloveni, un incoraggiante esperimento culturale post-jugoslavo che potrebbe fare scuola. Malgrado gli sforzi co-produttivi si avverte qua e là un certo pauperismo che finisce per nuocere alla sceneggiatura. Possibile, per esempio, che Luna con gli aerei ritorni sempre e soltanto, e non la si veda invece mai arrivare, sradicata e vagante, in un’altra città? In una Berlinale molto al maschile Zrinka Cvitesic offre tuttavia una delle interpretazioni femminili più convincenti dell’intero concorso.
(Na Putu) Regia: Jasmila Zbanic; sceneggiatura: Jasmila Zbanic; fotografia: Christine A. Maier; montaggio: Niki Mossböck; costumi: Leila Hodzic; intepreti: Zrinka Cvitesic (Luna); Leon Lucev (Amar), Ermin Bravo (Bahrija); produzione: Deblokada (Sarajevo), coop 99 filmproduktion (Vienna), Pola Pandora Filmproduktion (Berlino), Ziva Production (Zagabria); origine: Bosnia-Croazia-Austria-Germania; durata: 100’
