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NATA PER VINCERE

Pubblicato il 16 agosto 2005 da Alessandro Izzi


NATA PER VINCERE

Premessa indispensabile: benché qui a Close-up si eviti, il più delle volte, di anticipare dettagli della trama del film recensito, per Nata per vincere si è resa necessaria una significativa eccezione che nasce dalla semplice considerazione che l’opera in questione è, alla fin fine, poco più di ciò che racconta. Quei lettori che non hanno ancora visto al cinema questo film e che, incredibilmente, pensano di poter essere ancora sorpresi da operazioni di questa natura (il film è un teen movie femminile e zuccheroso) faranno, quindi, bene a non inoltrarsi troppo nella lettura di questo pezzo perché poco più avanti verranno rivelati anche dettagli secondari e, a prima vista, poco interessanti come il finale (l’ultima, ci pare, preoccupazioni degli sceneggiatori). Protagonista del film è naturalmente Hilary Duff. Tutto il racconto, ogni singola azione, ogni gesto o parola proferiti o compiuti da chicchesia, sono studiati a tavolino per cercare di dare all’attrice/cantante/icona pop americana agio di poter compiere la sua performance. Hilary Duff (non importa quale che sia il suo personaggio: qui l’actor’s studio è un optional e l’interprete mette in scena sempre e solo se stesso) è una ragazza finto ingenuo e molto volitiva. Ha una classica faccetta acqua e sapone, un’espressione perennemente imbambolata come fosse persa nel ricordo della fragranza di una torta di mele, una vocina esile e piacevole (tendente all’oca sia quando si cimenta in Handel che quando canta Giordano) e un’idea stampata sulla fronte: “sempre e comunque trionferò sulle avverse sorti”. Insomma è il classico prototipo della sana adolescente americana non troppo “out” per dispiacere alle madri (che devono magari accompagnare le figlie al cinema), ma abbastanza “in” da sapersi integrare in ogni contesto senza perdere la propria identità (che è poi la totale mancanza di una reale identità). Il che può essere decisamente “cool” per le nuove generazioni famelicamente a caccia di un nuovo modello/non modello che sappia essere, comunque, non troppo impegnativo. Hilary Duff, nel film, è un’aspirante cantante che non vede l’ora di diventare cantante a tutti gli effetti. Fin qui le sue motivazioni e la sua psicologia. Ad ostacolarla un padre volitivo e ferreo che dice di no a tutto e la consueta tragedia familiare che è il Dio invocato da tutti gli sceneggiatori quando devono coinvolgere un pubblico televisivoleso. Tale tragedia è la morte del fratello avvenuta proprio alla vigilia dell’accettazione della ragazza nella più prestigiosa (ma guarda un po’) scuola di musica americana per un corso estivo. Ovviamente l’evento luttuoso conduce ad una breve scena cimiteriale, ad una breve parentesi ospedaliera e ad una più sostanziosa rappresentazione della difficile elaborazione del lutto in contesto familiare (padre, madre e zia partecipi) e amicale (una ragazzina che dice che vorrebbe essere più matura per trovare le parole giuste: un consiglio che avrebbe fatto bene allo sceneggiatore di questo ignobile polpettone). Poi la partenza. L’arrivo nella realtà di Los Angeles (neanche accennata la storia di una città alternativa dove ragazzine coi suoi stessi sogni finiscono sulla strada a battere i marciapiedi). L’ingresso nella scuola. Le difficoltà di integrazioni con i ragazzi nuovi. I rapporti con i docenti che sono tutti carini tranne l’insegnante individuale di canto che è naturalmente tedesco e nazistoide. La storia d’amore con il ragazzo più carino della scuola (e parentesi comica anche la storia d’amore improbabile tra un batterista folle e geniale e una pianista squilibrata) che si svolge secondo la modalità classica: innamoramento/crisi derivata da un malinteso/riappacificazione/bacio. Le crisi di panico davanti al pubblico e, soprattutto ai tecnici delle luci che, non appena le puntano addosso l’occhio di bue riattivano nella mente il flash-back dell’incidente mortale e fratricida. E ovviamente la gara finale con borsa di studio in palio che viene vinta non dalla protagonista (che tornerà, comunque, l’anno prossimo), ma per spirito politically correct sulle pari opportunità da una ragazza di colore volitiva e brava che suona il violino come Jimi Hendrix (l’avesse suonato come Vanessa Mae avrebbe perso di sicuro). Alla fine, nel trionfo di un montaggio paratattico di rara obbrobriosità assistiamo, durante il concerto finale nel quale Hilary Duff ritrova il coraggio di cantare, alla ricomposizione del nucleo familiare con il padre che era andato a Los Angeles per riprendersi la figlia e che ora la guarda orgoglioso e ammirato. E naturalmente assistiamo anche alla performance di Hilary Duff che canta, canta e canta. Sospiriamo nei titoli di coda nella convinzione che, in fondo, non chiediamo troppo ad un film. Non vogliamo necessariamente originalità, profondità di pensiero o Kieslowski. Ci basta solo che non si prenda in giro la nostra intelligenza. O, peggio, che non si vada ad ottundere irreversibilmente il pensiero di chi un’intelligenza se la sta ancora formando.

(Raise your voice); Regia: Sean McNamara; sceneggiatura: Sam Schreiber; fotografia: John R. Legnetti; montaggio: Jeff Canavan; musica: Aaron Zigman; interpreti: Hilary Duff, Oliver James, David Keith, Dana Davis, Johnny Lewis; produzione: David Brookwell, A.J. Dix, Sean McNamara, Anthony Rhulen, Sara Risher, William Shively; distribuzione: Eagle

[Agosto 2005]

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