Natale a Beverly Hills

Un’aura senile si appropria del cinepanettone come un vento gelido che sa di foglie morte, di spifferi e di scricchiolii.
Un velo testamentario intorpidisce di stanchezza le pieghe di un prodotto nato per far ridere della risata grassa che tanto piaceva a Rabelais e che, questa volta, strappa a stento qualche sorriso di indulgenza. Di quelli che si regalano ai bambini quando ripetono troppe volte la stessa barzelletta che ancora non hanno imparato a raccontare bene, con le giuste pause e gli attacchi ad effetto.
Nasce vecchio Natale a Beverly Hills e si perde per strada (complice anche il cambio degli sceneggiatori con Martani e Brizzi divenuti ormai un ricordo) anche quel poco di volontà di graffiare il reale che ancora si portava dietro negli episodi precedenti.
Quel pizzico di voglia di far cinema che stava forse più nella sceneggiatura che nella regia è rimasto indietro, fuori dal set americano, fuori dalle parole dello script e fuori anche dagli sguardi degli attori che prestano svogliati il loro corpo ad un discorso incerto tra l’ansia di commedia che si era impadronita del prodotto da ben prima dell’estromissione di Boldi e il bisogno di un umorismo escatologico fondato sul basso corporeo, sull’escremento e sul gas intestinale che tanto piace ad un pubblico che s’è riempito ai pranzi comandati e che sdrammatizza a suon di gag il timore delle occlusioni intestinali.
Tutto arranca in un meccanismo che non era mai stato pensato per la sequenza virtuosistica, per il piano sequenza spericolato o per il tiro di fioretto dello stilista della forma. Tutto annaspa nel gioco di una ripetizione che suona finta come un discorso sull’etica dello spettacolo messo in bocca ad un presentatore ubriaco.
Anche il cinismo resta appeso fuori del racconto allo stesso modo di una decorazione natalizia messa sulla porta a salutare i visitatori che poi si trovano di fronte la consueta tavola imbandita coi rimasugli di feste migliori e di annate più ridenti. Dietro ai due episodi messi in malo modo ad alternarsi come luci natalizie intermittenti c’è un’ansia di famiglia a stento trattenuta che si imparenta con le idiosincrasie del maschio italico che ha bisogno delle corna per sentirsi uomo, ma ha nostalgia della condizione di padre e di marito, dell’etichetta buona da indossare almeno nei giorni di festa. Sicché De Sica si riscopre padre nascondendo al figlio la propria identità mentre il giovane Propizio impara a chiamar “papà” il suo genitore putativo nella consapevolezza che quest’ultimo sarà sempre al suo fianco nel momento del bisogno.
Non si celebrano matrimoni in Natale a Beverly Hills. Restano fuor di storia a certificare una raggiunta condizione di sicurezza per la donna più adulta dei maschi che le scorrazzano intorno e che si rivelano incapaci a prendersi sulle spalle uno straccio di responsabilità. Ma se il destino della donna è quella di prendersi carico della prole lasciata a casa dal fedigafro di turno, quello dell’uomo è di trasformarsi in maschera di Pantalone avvizzito, in millantatore di se stesso che guarda il mondo dall’esterno, da bordo campo.
Ed è stampandosi su questo personaggio senza qualità e con molte infamie (neanche più guardate con indulgenza o simpatia) che il cinepanettone si fa noioso oltre che (com’era stato fino ad oggi) mal confezionato.
La battuta greve (più verbale che visiva questa volta: una relativa novità nel gioco natalizio) si fa stantia. Diventa un pranzo surgelato e messo a tavola senza che il forno sia stato in grado di far altro che togliergli il freddo. Gli attori spaesati dall’assenza di intreccio si muovono su un set che non è mai stato così piatto, così privo di scorci di rilievo. La si riconosce come Beverly Hills, ma la storia è così chiusa negli alberghi e nelle hall degli stabilimenti balneari che si potrebbe svolgere ovunque, anche nell’astratto di una piccola località emiliana.
Così si replica il senso di vecchiaia che già si respirava negli ultimi spot di De Sica per i telefonini dove faceva un po’ specie vedere un uomo ormai di mezza età rincorrere l’impressione di una gioventù perduta. E nel film gli unici momenti d’attore sono in mano alla Ferilli che è cresciuta così tanto e così bene che le vien fuori comunque un ritratto di madre da quegli appunti sparsi per un personaggio che sono, in fondo, la sceneggiatura.
Per il resto è sonno. Increspato appena dai fantasmi delle risate degli scorsi anni che ancora riecheggiano tra le quattro mura delle sale dove ora c’è solo un sommesso, tristissimo russare.
(Natale a Beverly Hills); Regia: Neri Parenti; sceneggiatura: Neri Parenti, Alessandro Bencivenni, Domenico Saverni, Alessandro Pondi, Paolo Logli; fotografia: Daniele Massaccesi; montaggio: Luca Montanari; interpreti: Christian De Sica, Massimo Ghini, Sabrina Ferilli, Paolo Conticini, Emanuele Propizio, Michela Quattrociocche, Alessandro Gassman, Gianmarco Tognazzi, Michelle Hunziker; produzione: Aurelio De Laurentis e Luigi De Laurentis; distribuzione: Filmauro; origine: Italia, 2009; durata: 100’
