X

Su questo sito utilizziamo cookie tecnici e, previo tuo consenso, cookie di profilazione, nostri e di terze parti, per proporti pubblicit‡ in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di pi˘ o prestare il consenso solo ad alcuni utilizzi clicca qui. Chiudendo questo banner, invece, presti il consenso allíuso di tutti i cookie



Natale a Miami

Pubblicato il 21 dicembre 2005 da Alessandro Izzi


Natale a Miami

Già il titolo del film è, per dirla brutalmente, un’ignobile menzogna perpetrata ai danni di uno spettatore sempre più complice dell’inganno che gli viene imposto. Natale a Miami presuppone, infatti, un racconto che abbia contemporaneamente sia una precisa definizione temporale (il Natale appunto) che una precisa locazione geografica (una città specifica del mondo con le sue caratteristiche, la sua topografia, i suoi luoghi riconoscibili o poco conosciuti). Il titolo ammicca anche, nella sua allusività generica, a una dimensione di sorpresa, di novità: non un Natale qualsiasi, magari nel grigio della propria cittadina di provincia, ma un Natale speciale, un evento, un’esperienza dotata di un preciso carattere di unicità.
Il titolo, per dirla tutta, postula, nell’arco di una narrazione ancora a venire, l’esistenza di un vero e proprio percorso spazio temporale; indica al proprio pubblico l’intenzione palese di raccontare un Viaggio; solletica le corde di un possibile racconto di formazione in cui lo spostamento geografico è sinonimo non solo di un movimento fisico sulla superficie del globo, ma anche di un mutamento interiore che possa stare al passo con il mutare dei paesaggi che scorrono sotto gli occhi dei vari protagonisti della pellicola. Ogni racconto di viaggio, infatti, presuppone sempre un accrescersi cognitivo, ci mette sempre di fronte a tutta una possibile serie di scoperte sia interiori che esteriori, mette in campo una sequela di nuovi apprendimenti.
In Natale a Miami, viceversa, ci troviamo di fronte ad un totale azzeramento delle coordinate spazio temporali del racconto. Niente, nel corso della pellicola, se non qualche accenno fugace, riesce a metterci di fronte al fatto compiuto di essere in periodo natalizio, poco, quasi nulla, se non qualche scialba panoramica aerea delle principali spiagge della città, ci dà il senso di essere davvero a Miami. Il viaggio, in quanto tale, non esiste più secondo l’inflazionata poetica del film panettone: ovunque si vada, qualsiasi sia la meta delle vacanza dei vari personaggi, ci si ritrova sempre in luoghi non dissimili dai punti dai quali il viaggio aveva avuto origine. Ovunque si parla italiano (l’unica gap linguistica di tutta la pellicola riguarda lo scontro con due tassisti entrambi di origini palesemente messicani: un esempio rispettoso della sottile e strisciante xenofobia degli italiani di fine millennio), ovunque gli italiani sono riusciti ad esportare il loro gretto volgare turpiloquio. È come se il film in questione volesse portare all’estremo un percorso che in qualche misura era già in nuce negli altri film panettone ambientati all’estero una riduzione al nulla più assoluto dell’alterità del resto del mondo. E questo è nient’altro che l’espressione del finale trionfo del viaggio di un provinciale ignorante e arrogante.
Tutte le volte che una persona si sposta dalla provincia per raggiungere una capitale dell’impero, una metropoli, un luogo nuovo, vige sempre la pretesa assurda di ritrovare nel resto del mondo gli spazi e i luoghi del suo vivere quotidiano. Ma, fino a qualche anno fa, nel provinciale c’era sempre anche la capacità di lasciarsi sorprendere e suggestionare dai luoghi visitati, resisteva lo stupore verso la novità, la disponibilità verso il diverso. In questo senso il viaggio era sempre scoperta e crescita.
Il film panettone ci racconta, suo malgrado, un provinciale nuovo: un individuo che, pur spostandosi nello spazio, non riesce a ritrovare fuori di sé nient’altro che se stesso, le sue abitudini i suoi consueti oggetti di visione. Ci mette di fronte ad un italiano medio che sempre più percepisce di non aver bisogno di spostarsi perché tutto quello che può interessargli vedere è ben piazzato al centro del proprio salotto e strettamente a portata di telecomando. Un italiano ormai definitivamente televisivizzato (di qui l’immaginario dispiegato che è sempre pesantemente ancorato ad una visione palesemente fine anni ’70 tipica delle serie televisive storiche) che perde sempre più i contatti con la realtà e che può accontentarsi di un film dai meccanismi ampiamente prevedibili come questo perché la televisione gli ha fatto perdere il piacere di essere sorpresi ed emozionati.
Ed è qui che il film panettone rivela la sua insospettabile dimensione di vero e proprio “gesto politico” perché non nasconde la sua dimensione di manifesto e vessillo di una realtà, quella italiana, sempre più telecratica sempre più motivata ed ancorata alle esigenze del tubo catodico. Natale a Miami non spaventa perché è stupido, non spaventa per le sue pubblicità occulte alle marche di telefonini, né perché è segnale di un gusto cinematografico sempre più becero, sempre più tendente ad un utopico grado zero della cultura. Natale a Miami terrorizza perché è il perfetto sintomo di una società in declino, di una realtà che sempre più è composta da persone che, andando in giro con occhialini a forma di televisione inforcati sul naso, pretendono che il mondo esterno sia fatto a loro immagine e somiglianza. E quell’immagine è, ahinoi, sempre più disgustosa.

[dicembre 2005]

(Natale a Miami) Regia: Neri Parenti; sceneggiatura: Neri Parenti, Fausto Brizzi, Marco Martani; fotografia: Tani Canevari; montaggio: Luca Montanari; interpreti: Christian De Sica, Massimo Boldi, Massimo Ghini, Vanessa Hessler, Francesco Mandelli, Giuseppe Sanfelice di Monteforte, Paolo Ruffini, Raffaella Bergè, Caterina Vertova; produzione: Aurelio De Laurentis; distribuzione: Filmauro

Enregistrer au format PDF