Natale a New York

Uno dei motivi di puro interesse sociologico dei cinepanettoni di Neri Parenti risiede tutto nel loro sguardo apparentemente svagato, in realtà preoccupato sulla società che li sta generando e di cui sono un riflesso assai poco deformato.
Essi sono, in effetti, espressione di un’Italia che vive sulla propria pelle la difficoltà di giungere davvero e concretamente ad una forma di "autodefinizione" reale. L’italiano medio messo in scena nei film di Neri Parenti, insomma, non sa più chi è veramente e, nell’ansia di giungere ad un qualsiasi tipo di punto fermo con se stesso e con gli altri, si cala a viva forza in una serie di maschere (anche linguistiche: vedi l’abbondanza di dialetti esasperata proprio in Natale a New York con i personaggi della Ferilli e di Siani) che lo indentificano e al tempo stesso lo imprigionano.
Frutto di quest’ansia anelante e triste è, paradossalmente, quel delirio di onnipotenza che tanto facilmente identifichiamo negli italiani in gita all’estero, specie quando si muovono "in branco" con quel fare chiassone che ad ogni passo rivendica una forma di appartenenza non si capisce bene a cosa. Un delirio provinciale, quello di cui stiamo parlando, che rifiuta di sciogliersi nell’alterità dei luoghi visitati e delle persone incontrate e che cerca nell’altro sempre e solo la conferma della propria immagine.
"Tutto il mondo è paese", sembra essere la formula distintiva con la quale i personaggi di Neri Parenti si muovono giammai spaesati per ogni dove (lo spaesamento sarebbe, infatti, sintomo di un dubbio, di una messa in discussione) e, ovunque, l’italiano è la lingua parlata e compresa e l’italianità una categoria assodata e riconosciuta. Basti vedere, nel film, come il personaggio di Siani ritrovi segni di napolitanità ad ogni angolo di strada e nei personaggi più improbabili (l’indiano di Bombay che parla con l’accento di Pompei e via elencando).
Questa realtà, espressione di un italiano medio definitivamente arroccato in se stesso e volgarmente proteso alla magnificazione della propria maschera, è anche espressione di un momento storico ambiguo perso tra la paura e, al tempo stesso, la fascinazione nei confronti di una globalizzazione sempre più vincente.
Sicché l’imposizione costante della realtà ingombrante della propria maschera al mondo è sintomo, anche, del desiderio di mantenere una propria identità laddove tutto sembra sciogliersi in un’omologazione apparentemente inarestabile.
Con tutte le sue gap linguistiche, coi suoi giochi dialettali, con la moltiplicazione degli accenti, il cinepanettone di quest’anno dimostra, con una consapevolezza che fino a questo punto ci sembrava mancare a questo genere di prodotti, un’inesausta nostalgia verso un’Italia che sta scomparendo per sempre e che sta per essere soppiantata da un modello televisivo imperante e di matrice nettamente americana.
Natale a New York ricerca, insomma, le vecchie parole del regionalismo italiano quasi vivesse nel timore, proprio in terra americana, dell’inglese che è ormai entrato a far parte del nostro linguaggio e che è diventato parte di noi.
Un timore, questo, che nell’ambiguità di ogni momento di passaggio si ribalta ad ogni passo nel suo stesso contrario: nella fascinazione verso quell’America universale e nel suo cinema capace di rivolgersi a platee indifferenziate e stratificate.
Da questo punto di vista l’ultima fatica di Neri Parenti si definisce come un’operazione dalla doppia anima.
Da una parte aspira a rendere evidente la propria nostalgia verso un’Italia in declino e verso un genere (la commedia di caratteri, con un pizzico di sentimentalismo) che ha fatto la gloria del nostro cinema passato.
Dall’altra, attraverso il segmento narrativo dominato dai personaggi di Mandelli e Ruffini e più espressamente dedicato ai giovani, dimostra la volontà di volersi ancorare alle logiche di un genere (la commedia goliardica di matrice prettamente americana alla American pie) solo parzialmente riferibile alla nostra tradizione.
Tutti questi riferimenti al passato che vanno ad incastrarsi anche in citazioni, non sappiamo quanto volontarie, alla grande tradizione del comico (la scena di Ruffini che usa il cane come carta igienica ricalca i giochi di Rabelais con il "papero ben piumato"), vanno poi ad urtare con la realtà di personaggi che non sanno che farsene di passato e cultura.
Se Natale a Miami aveva rappresentato, l’anno scorso, la riduzione al grado zero delle coordinate geografiche del globo per cui ogni luogo diventava uguale a qualsiasi altro, Natale a New York diventa, invece, il sintomo della riduzione a grado zero della coscienza storica dell’italiano medio.
E’ significativo, infatti, che proprio nella New York delle Torri gemelle non sia speso un solo fotogramma a renderci conto della tragedia epocale in cui viviamo tutti oggi (ma qui parla anche l’anima di puro intrattenimento dell’operazione). Ma è, ancor più significativo come, nel film, presente e passato, si rispecchino costantemente, anche a livello generazionale, per trovarsi sempre identici. Tra la generazione dei figli (Mandelli e Ruffini) e quella dei padri (Bisio) non c’è reale differenza: a cambiare, nelle immagini, sono solo i costumi e, in questa stessa logica, ciò che sembra distinguere il Sessantotto dall’oggi è solo una mera questione di moda.
In questa sostanziale frattura che si viene a creare tra Mondo dei personaggi (senza spazio e senza tempo) e Mondo degli autori (protesi al recupero di una tradizione e preoccupati/incuriositi verso un futuro fumoso ed incerto) si viene a creare quella distanza tra regista e mondo rappresentato che, fino all’anno scorso, latitava un po’ troppo dalle commedie natalizie.
Sicché la partizione ad episodi che resta caratteristica costante del film natalizio, perde quella connotazione accessoria che aveva sin qui avuto per diventare elemento strutturale e necessario.
Natale a New York non è quindi film migliore dei precedenti perché meno volgare di quelli (la macchina da presa stoppa sempre un attimo prima dell’eccesso: si pensi alla scena di Mandelli nella doccia), né perché ha attori più in parte e meglio distribuiti (la mancanza di Boldi sembra aver agito da tonico sul sistema stanco e ripetitivo).
Natale a New York è film migliore perché in esso, finalmente, sembra farsi strada un discorso, l’espressione di un pensiero.
[Dicembre 2006]
(Natale a New York); Regia: Neri Parenti; sceneggiatura: Neri Parenti, Domenico Saverni, Fausto Brizzi, Marco Martani, Alessandro Bencivenni; fotografia: Daniele Massaccesi; montaggio: Luca Montanari; interpreti: Christian De Sica (Lillo), Sabrina Ferilli (Barbara), Massimo Ghini (Claudio), Claudio Bisio (Dr. Benci), Alessandro Siani (Lallo), Fiorenza Marchegiani (Milena), Elisabetta Canalis (Elisabetta), Francesco Mandelli (Francesco), Paolo Ruffini (Paolo); produzione: Filmauro S.r.l.; distribuzione: Filmauro; origine: Italia, 2006; durata: 105’; webinfo: Sito ufficiale
