Natale a Rio

Ha ragione Christina De Sica quando afferma che è arrivato il momento di concepire il cinepanettone non più come l’unione di due o più episodi isolati e tra loro quasi impermeabili, ma come un film unico, come un’unità narrativa a suo modo autonoma ed autosufficiente. È passato, insomma, il tempo del film condominio dove ogni piano ha la sua famiglia di attori e la sua piccola storia da raccontare ed è definitivamente arrivato il momento del film edificio, della costruzione unitaria con le sue stanze e i suoi servizi, coi corridoi che uniscono i destini dei vari personaggi e le balconate che affacciano sulla pubblica piazza.
Fino ad oggi la struttura condominiale del cinepanettone aveva un suo scopo preciso: coinvolgere fasce diversificate di pubblico con strategie narrative adeguate alla bisogna. La convivenza di diversi registri linguistici rispondeva in primo luogo all’esigenza di rispondere alle varie “domande” espresse da fasce di spettatori tra loro molto diverse. C’era, quindi, il versante giovanilistico (rivolto ai teenagers nostrani) che puntava tutta la sua efficacia su riferimenti alla commedia goliardica americana; c’era il versante “adulto” che si fondava su precisi omaggi alla commedia più sofisticata; c’era il versante “bambino” (una fascia di riferimento visto che un bambino si annida sempre in ciascuno di noi) che si condensava tutto nella comicità escatologica di Boldi coi suoi continui riferimento al basso corporeo, agli escrementi, al deperibile del corpo secondo una visione tutta “di pancia” della vita; c’era un versante televisivo che abbisognava di costanti iniezioni di personaggi e realtà tratte dal piccolo schermo ed immediatamente digeribili (un immaginario masticato due volte e, per questo, di facile presa su un pubblico che vuole andare al cinema solo per divertirsi) e c’era, infine, un versante teatrale con un cinema che non nascondeva il suo bisogno di antecedenti plautini (doppi, gemelli, sosia, scambi di persona, confusioni linguistiche e malintesi) e di maschere (De Sica, Ghini, lo stesso Boldi: più tipi immediatamente riconoscibili che interpreti impegnati in ruoli di volta in volta diversi).
Questa stratificazione del materiale narrativo rimane sostanzialmente la stessa da venticinque anni. A cambiare non sono, quindi, gli ingredienti, ma le dosi i modi e i tempi di cottura.
Per questo nel corso degli anni si sono registrati film più squilibrati sul versante giovanilistico cui hanno fatto seguito altre pellicole più dominate da riferimenti all’immaginario televisivo e così via. L’unica cosa che restava assolutamente certa, almeno sino all’anno scorso, era la necessità di sfidare la bidimensionalità dei personaggi messi in scena e lo scarso appeal narrativo delle storie mediante la loro moltiplicazione incontrollata. I cinepanettoni erano, fino a Natale in crociera, inverosimilmente affollati di personaggi che popolavano racconti tra loro autonomi che spesso non si toccavano neppure. Più che un film costruito su un ordito di storie tra loro intrecciate i film di Natale erano la risultante di due, tre, quattro pellicole diverse montate insieme in alternato. Il problema della loro coesistenza all’interno di un solo edificio filmico era “relativa” e lo stesso pubblico non avvertiva contraddizione tra una scena in cui Boldi usava le fasce della mummia come carta igienica e la più romantica storia dei due giovani figli innamorati. Il problema non si poneva perché la discontinuità dei registri stilistici era progettuale e il salto di tono da una situazione all’altra era studiato per produrre un preciso effetto comico.
Con Natale in crociera gli stessi autori del cinepanettone devono aver sentito il bisogno di stringere le corde del racconto in una più compatta costruzione narrativa. La tensione alla riduzione dello spazio narrativo ad un unico non-spazio (ché tale è una nave da crociera perduta nell’immensità dell’oceano) rispondeva al bisogno di testare la tenuta spettacolare dei personaggi chiusi nello spazio concentrazionario di un racconto che già tendeva a diventare uno solo. Con Natale a Rio questo processo raggiunge il suo punto estremo.
Il film è fondato sull’accostamento di due storie tra loro totalmente estranee e fondate su registri stilistici eterogenei: da una parte la storia d’amore tra Michelle Hunziker e Fabio De Luigi con i suoi costanti riferimenti ad una commedia americana sofisticata anche se ingrevita su una comicità più stilleriana che non alla Meg Ryan; dall’altra parte la storia di De Sica e Ghini in cerca d’avventure che ha sapore più goliardico anche se la maggior parte delle risate sono prodotte non da una comicità situazionale, ma da giochi verbali, da slittamenti semantici operati sulle parole e dalle incomprensioni che derivano dall’accostare un docente di filosofia (Ghini) ad un più ruspante (ancorché non meno borghese) nuovo arricchito (De Sica).
In questo senso è vera l’affermazione di Neri Parenti secondo la quale Natale a Rio è il cinepanettone dalla sceneggiatura più elaborata e complessa. Una verità che nasconde, però, un secondo livello di lettura più decisamente imbarazzante: la complessità di cui parla il regista sta tutta nel lavoro di cesello sui dialoghi (alcuni davvero scoppiettanti grazie anche all’interpretazione degli attori) e non certo nella costruzione dei caratteri o nella definizione del racconto. E il pensare che la sceneggiatura sia tutta nei dialoghi è segno del provincialismo di fondo che da sempre anima ogni cinepanettone.
Sicché fa sorridere l’ingenuità con cui vecchie volpi di cinema non si accorgano di come i due episodi che compongono il racconto, pur mantenendo un identico tema di fondo (la bugia: quella che i padri raccontano ai figli e quella che Linda vorrebbe raccontare al padre) finiscano per rimarcare, ad ogni piè sospinto, la loro sostanziale estraneità. Le due anime di Natale a Rio fanno costantemente a pugni tra loro e la loro coesistenza si fa fastidiosa come l’invadenza dei marchi degli sponsor del product placement che stanno lì, nel corpo dell’inquadratura, come dei cancri che non possono essere estirpati se non si vuole compromettere la salute del paziente (e sarebbe ora che noi italiani si impari l’arte di alludere alla pubblicità integrandola nell’azione e non lasciandola come mero sfondo al racconto).
In questo modo le quasi due ore di proiezione diventano eccessive e faticose. Con una sola storia e con venti minuti di meno Natale a Rio avrebbe potuto essere un godibilissimo prodotto. Così com’è resta film di facili incassi (quest’anno forse, finalmente, un po’ meno) che si lascia apprezzare per il grande affiatamento degli interpreti e per aver dato spazio ad una giovane promessa da cui è lecito aspettarsi qualcosa: Emanuele Propizio.
(Natale a Rio); Regia: Neri Parenti; sceneggiatura: Neri Parenti, Domenico Saverni, Marco Martani, Alessandro Bencivenni; fotografia: Gino Sgreva; montaggio: Luca Montanari; musica: Bruno Zambrini; interpreti: Christian De Sica (Paolo Berni), Michelle Hunziker (Linda Vita), Fabio De Luigi (Fabio Speranza), Massimo Ghini (Mario Patani), Ludovico Fremont (Piero Berni), Emanuele Propizio (Marco Patani), Paolo Conticini (Gianni Corsi); produzione: Filmauro, Conspiracao Filmes; distribuzione: Filmauro; origine: Italia, 2008; durata: 111’
