X

Su questo sito utilizziamo cookie tecnici e, previo tuo consenso, cookie di profilazione, nostri e di terze parti, per proporti pubblicit‡ in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di pi˘ o prestare il consenso solo ad alcuni utilizzi clicca qui. Chiudendo questo banner, invece, presti il consenso allíuso di tutti i cookie



Natale in India

Pubblicato il 19 dicembre 2003 da Alessandro Izzi


Natale in India

Ogni cultura, si sa, definisce sempre, proprio nel momento in cui li usa, i caratteri peculiari dei suoi mezzi di espressione e di comunicazione. In altre parole quando viene messo in moto un qualche processo comunicativo ad essere attivata è sempre una precisa correlazione tra un segno (che sia un fonema, una lettera scritta, un gesto) ed un significato. L’Arte è, in questo frangente, quel sistema di espressione che lavora esattamente sull’ambiguità di questo processo. La sua efficacia non risiede tanto nella capacità di comunicare un concetto, ma si trova, soprattutto, nello spazio franco della possibilità di un fraintendimento. Per il poeta un segno significa certamente un preciso concetto, ma esso si apre anche alla possibilità di significati ulteriori che si allargano a dismisura nello spazio semantico. Generalmente quando un’opera d’arte lavora sulla possibilità di slittamento da un significato ad un altro, quando opera sulla contrapposizione di due significati spesso opposti che convivono in uno stesso segno, essa assume delle caratteristiche cui abbiamo dato il nome di comico. Il comico lavora, quindi, non sul concetto, ma sulla forma dell’espressione. Per questo il riso, in genere, tende a destituire il significato, a farlo scendere da quell’altezza che la sedicente cultura solitamente gli assegna. A contare per il comico non sono, insomma, le idee, ma il meccanismo che può privare quelle stesse idee della loro presunta importanza. Per far questo il comico deve muoversi nella sfera della pragmatica, deve essere lontano da tutto ciò che è “idea” per diventare il più possibile “fatto”, deve tenersi il più lontano possibile dalla sfera della mente per restare legato il più possibile alla sfera del corpo. E del corpo deve rappresentare gli aspetti più spiacevoli: la sfera deperibile, gli escrementi, la fame. Su questa linea si muove anche la comicità grassa di Natale in India (e di tutti i film panettone) con la sola differenza che quella che nei comici puri è espressione di una precisa condizione esistenziale qui è, invece, pura e semplice esasperazione di un preciso meccanismo ludico. L’azione portata avanti da Boldi e De Sica è, sì, quella della riduzione d’importanza del significato, ma essa non conduce, come nelle grandi opere comiche, ad una rivelazione sull’esistenza e sul significato del mondo (che può benissimo anche essere tragicamente un non significato) perché questo processo è assolutamente inconsapevole. Infatti nel momento in cui Natale in India riduce tutte le idee al rango di assurde illusioni non compie un’operazione capace di ridare, poi, un senso nuovo al mondo. Insomma il film non vuole smascherare la nostra illusione finto borghese per scoprire sotto la scorza delle nostre esistenze qualcosa di totalmente diverso (la mostruosità, il nulla, un barlume del divino, ecc.), ma si limita a mettere alla berlina certi atteggiamenti per rimarcare, alla fine, come poi noi siamo fatti tutti della stessa pasta assolutamente borghese. E questo avviene essenzialmente perché, nel portare avanti le sue strategie comunicative, il film non sembra avere nessuna comprensione dello stesso linguaggio che mette in atto. Quando Dario Fo o i fratelli Marx riducono un’idea al rango di illusione essi hanno insomma ben chiara la funzione anche storica di quell’idea che vogliono destituire comicamente. Il film panettone, per contro, è il figlio perfetto di una società che sempre più perde di vista l’importanza e la capacità comunicativa del linguaggio perché sempre più perde di vista il valore delle idee. Per questo lo stesso modello comunicativo (oltre ad essere molto visivo: cosa che di per sé non è un male) sempre più si avvicina al suono disarticolato (peti, rutti ed altre espressioni del basso corporeo) o alla parola-nome che ha perso quasi definitivamente il suo significato (il Nelson di De Sica che potrebbe essere Mandela come Piquet). E questo perché viviamo in una società che sempre più azzera il suo grado di consapevolezza storica, divenendo, con questo, sempre meno capace di comunicare e, quindi, di fare veri film comici o vere opere d’arte. Paradossale, allora, ma non poi troppo, che per esistere un film panettone debba indebitarsi così tanto con gli archetipi della commedia teatrale grazie ad una serie di escamotage (il sosia, lo scambio delle culle, l’agnizione ecc.) che sono tipici della tradizione plautina. Anche Plauto e Terenzio, come autori, sono figli di una società in pieno declino, ma la loro capacità di gestire la scena e la parola sono del tutto inaccostabili al pasticciaccio di Neri Parenti. Perché se la società decade non è detto che l’autore debba partecipare al tracollo in maniera così totalmente acritica. I germi di questi decadimento erano palesi anche nelle opere precedenti, ma l’atroce riuscita di questo prodotto dovrebbe essere tale da sconsigliare anche alla piccola schiera degli sdoganatori di astenersi dall’esprimere un parere positivo verso una sceneggiatura che ha più buchi di un colabrodo e ad una distribuzione delle parti comiche assolutamente risibile.

(Natale in India); regia: Neri Parenti; sceneggiatura: Fausto Brizzi, Lorenzo De Luca, Marco Martani, Neri Parenti; fotografia: Gianlorenzo Battaglia; montaggio: Luca Montanari; musica: Bruno Zambrini; interpreti: Massimo Boldi, Christian De Sica, I fichi d’india, Biagio Izzo, Enzo Salvi; produzione: Aurelio De Laurentis; distribuzione: Filmauro

[dicembre 2003]

Enregistrer au format PDF