NELLA MENTE DEL SERIAL KILLER

Renny Harlin non è tra quei registi per i quali si sprechi più di tanto la parola genio. Si tratta piuttosto di un onesto artigiano che ama, però, ingarbugliare le carte delle sue opere con divertite ibridazioni, con giochi visivi a volte gratuiti, ma sempre motivati da un’autentica passione per il genere frequentato (l’horror, il thriller, ma anche l’action più puro) e per le tematiche messe in scena. Il suo capitolo della serie di Nightmare (il quarto: Il non risveglio) è certamente uno degli anelli più deboli del ciclo dedicato al mitico assassino uncinato, ma è anche quello che accetta il rischio di reinventare l’immaginario della serie mediante un gioco virtuosistico che mescola il linguaggio onirico (e tutte le sue palesi contraddizioni) con il meccanismo dei giochi ruolo chi arrivando ad una forse non del tutto volontaria riflessione sulla penetrazione di quell’immaginario nel tessuto della vita dei teen ager occidentali. Anche il suo prequel della serie di L’esorcista (scippato a Schrader dalla miopia della produzione), per quanto inavvicinabile sia al rigore formale del capostipite sia alle riflessioni filosofiche del secondo capitolo ad opera di un regista discontinuo, ma geniale come John Boorman, brilla per la sua capacità di confrontarsi con le attese del pubblico riuscendo spesso ad assestare qualche deciso pugno nello stomaco dello spettatore. Consci di queste premesse non dobbiamo, quindi, aspettarci molto più che un onesto meccanismo narrativo dalla visione di un film come Nella mente di un serial killer che esce alla chetichella nella calura estiva cercando di sfruttare, almeno nelle intenzioni dell’edizione italiana che punta molto sul termine serial killer, l’ondata positiva che sembra sempre sostenere il genere horror soprattutto da quando si è svuotato di ogni possibile carica eversiva. Anche in questo caso, come in gran parte dei frutti seriali di un’industria consapevole di poter sfruttare una fascia di pubblico basica ed inamovibile, un’impressione imperante di deja vu permea ogni singola inquadratura della pellicola donando al risultato finale quell’aura di dorata maniera che, in fondo, non riesce mai ad essere del tutto spiacevole soprattutto per gli estimatori del genere. Anzi, a ben guardare, il modo in cui il regista gioca con il proprio meccanismo filmico, costruendo le sequenze sulla base di immagini e situazioni desunte da altre pellicole o da fortunate serie televisive, finisce col tempo per assumere un discreto ed insospettato valore metareferenziale che è palese fin dalla prima sequenza, quando consumato quello che fino ad un certo punto ci sembra uno spaventoso delitto multiplo, le luci della casa si accendono rivelando il tutto per quello che è: il set di una simulazione, la menzogna (del film che guardiamo al cinema) che cela al suo interno un’altra menzogna (della messa in scena che i personaggi portano avanti come esercitazione della polizia). L’inanellarsi di eventi delittuosi segue, quindi, come sempre, una strutturazione abbastanza imprevedibile e capricciosa con un visibile crescendo grafico di tensione ed isteria che vengono abilmente intrecciati dalla mano di un regista che sa il suo mestiere. Certo bisogna soprassedere sui soliti paradossi insoluti della sceneggiatura, ma ad una prima visione in quanti sono, davvero, ad accorgersi delle pur palesi incongruenze narrative quando a contare è solo il tanto atteso momento in cui il regista ci farà saltare dalla poltrona? Si lascia la sala dopo la visione di un film senza infamia e con qualche lode guidati dalla precisa consapevolezza che non ci vuole poi molto a fare un horror. Il problema è riempirlo di pensiero.
(Mindhunters); Regia: Renny Harlin; sceneggiatura: Wayne Kramer, Kevin Brodbin; fotografia: Robert Gantz; montaggio: Neil Farrell, Paul Martin Smith; musica: Tuomas Kantelinen; interpreti: LL Cool J, Jonny Lee Miller, Kathryn Morris, Patricia Velasquez, Val Kilmer, Christian Slater; produzione: Dimension Films, Intermedia Films; distribuzione: Eagle; origine: U.S.A., 2004
[Agosto 2005]
