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Neruda

Pubblicato il 16 ottobre 2016 da Matteo Galli
VOTO:


Neruda

Non si può dire che Pablo Neruda (1904-1973) sia stato negli ultimi anni al centro di una particolare attenzione, fatta salva la notizia, circolata qualche anno fa, della salma del poeta cileno riesumata per verificare le cause della morte, avvenuta poche settimane dopo la presa del potere da parte di Pinochet. Neruda pur malato (aveva un cancro alla prostata in stato avanzato), sarebbe dovuto ripartire dal Cile, ma e le fonti ufficiali attribuirono a un improvviso peggioramento il decesso; fin quando l’autista del poeta dichiarò che in realtà gli sgherri del generale si erano introdotti nella stanza di ospedale praticandogli un’iniezione letale. Ancora non sembrano essere pervenuti i risultati delle analisi. Definito da Garcia Marquez il più grande poeta del secolo, Neruda paga la fine di un’èra, la crisi forse irreversibile di un modello di intellettuale impegnato, definitivamente tramontato nell’età postmoderna, anche in seguito all’istituzionalizzazione di determinate istanze rappresentate, ancora negli anni Sessanta e Settanta in prevalenza dagli intellettuali engagé (Pasolini, Sartre, Böll). “Abbiamo perduto Heinrich Böll, ma in compenso abbiamo acquistato Amnesty International”, scrisse nel 1987 Hans Magnus Enzensberger.
È dunque uno dei molti meriti dell’eccellente settimo film di Pablo Larraín - uno dei registi più solidi del cinema d’autore contemporaneo, capace in due anni scarsi di girare ben tre film di notevolissimo livello, peraltro uno diverso dall’altro: oltre a Neruda, El Club (2015) e Jackie, presentato un mese e mezzo fa a Venezia - esser tornato a occuparsi del suo celebre e omonimo connazionale. Per vedere Neruda al cinema bisogna infatti andare indietro di ventidue anni, indietro fino al Postino.
Un film che porta come titolo il nome e basta fa nello spettatore immediatamente pensare a un biopic. Ma Neruda è un biopic molto sui generis. Innanzitutto si concentra su una fase estremamente limitata della vita del poeta, all’incirca un anno, fra il 1948 e il 1949, quando il presidente cileno González Videla (che Neruda dal suo scranno di senatore aveva contribuito a far eleggere e che dal suo scranno di senatore accusò di essere un traditore, per la precisione un “rata”, un ratto) mise fuorilegge il partito comunista costringendo il poeta a un periodo di clandestinità poi culminato con un’avventurosa fuga in Argentina, attraverso le Ande, e da lì in Francia, dove verrà accolto a braccia aperte, a sorpresa, in occasione del congresso mondiale dei partigiani della pace. Prove generali di golpe, dunque, e in una breve sequenza ambientata in un campo di concentramento viene mostrato anche un giovane Pinochet, a riprova che una volta di più a Larraín interessa (anche) alludere al periodo più tremendo della storia cilena su cui già molti dei suoi film si sono concentrati (No, i giorni dell’arcobaleno, fra tutti). L’episodio con Pinochet è probabilmente inventato, ma ben esemplifica l’approccio scelto dal regista: il dato fattuale serve semplicemente da spunto per raccontare una vicenda dai tratti fantasmagorici che affianca a Neruda come deuteragonista, ma in certi momenti vero protagonista, misteriosa voice off dapprima, incalzante voice over dopo, un personaggio, anch’egli realmente esistito, un – alla lettera – figlio di puttana che risponde al nome di Oscar Peluchoneau, un poliziotto incaricato dal presidente di scovare il poeta. Il film diviene così una quest, il poliziotto cerca il poeta che sembra prendersi gioco di lui – innumerevoli volte il primo manca il secondo, artista del travestimento e della dissimulazione, per pochi attimi, con una dinamica che non di rado fa pensare più che a una detective story a un cartone animato, Willy il Coyote che manca sempre l’appuntamento con Bee Beep, fino al tragico incontro/scontro finale nel maestoso paesaggio innevato delle Ande. Come sempre accade in epoca postmoderna - in Borges, in Nabokov, in Tabucchi giusto per fare qualche, notevole, esempio - nel corso della ricerca le identità si confondono, il poliziotto sembra un creazione del poeta, un alter ego del poeta e cercando Neruda Oscar prova a cercare sé stesso, a trovare un’identità, l’identità che, in fondo, quel figlio di puttana non ha mai avuto. La fantasmagoria ha nel film un sontuoso equivalente formale: il Neruda in fuga, pubblicamente poetante, travestito e amante esprime la propria massiccia e a tratti ridicola fisicità all’interno di ambienti barocchi e coloniali, descritti con una fotografia anticata, con colori seppia e malva, con elaborati piani sequenza o antinaturalistici tagli di montaggio; il poliziotto che lo insegue obbedisce a un’estetica di genere (noir, spy, cartoon), esibita, recitata, dunque straniata. Eppure malgrado l’attitudine di fondo definibile appunto come postmoderna Larraín riesce reiteratamente ad assurgere a momenti di straziante poesia visiva e letteraria, anche grazie a due attori straordinari: Luis Gnecco e Gael García Bernal. E questo riesce solo ai grandi autori.


CAST & CREDITS

(Neruda); Regia: Pablo Larraín sceneggiatura:Guillermo Calderón; fotografia: Sergio Armstrong; montaggio: Hervè Schneid; interpreti: Luis Gnecco (Neruda), Gael García Bernal (Oscar Peluchoneau), Alfredo Castro (González Videla), Mercedes Morán (Dela del Carril); produzione: Participant Media, AZ Films, Casting del Sur origine: Cile, Argentina, Francia, Spagna, Usa 2016; durata: 107’


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