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Neverland

Pubblicato il 17 febbraio 2005 da Alessandro Izzi
VOTO:


Neverland

Neverland si fonda su una serie di apparenti contrapposizioni sia stilistiche sia narrative che si risolvono, poi, nella logica di un’armonia superiore di difficilissima definizione.
Si tratta, insomma, di un film in continua oscillazione, un vero e proprio pendolo finzionale che si muove tra poli apparentemente opposti e mai reciprocamente impermeabili.
Una scelta strutturale, questa, già evidente dal punto di vista strettamente narrativo nel modo in cui il protagonista, James Barrie, vive senza alcuna ansia palese, ma con un aplomb sinceramente imbarazzante le contraddizioni tra la sua vita familiare con una moglie minuta e sentimentalmente distante e l’attrazione intellettuale, curiosa, emotiva per il nucleo familiare costituito dalla giovane vedova Sylvia Llewelyn Davies (interpretata da Kate Winslet: sublime) e i suoi tre figli. Fin dall’inizio il regista e lo sceneggiatore evitano la trappola ricattatoria di porre il loro personaggio in una situazione di aut aut e giocano sull’ideale di una sostanziale ricomposizione che è prima di tutto interna: le due realtà vissute dal protagonista, l’amore straniato per la moglie e la crescente affezione per la sua nuova famiglia elettiva, sono costruite come due mondi tra loro inconciliabili (anche per via delle norme sociali che, di fatto, non possono riconoscere come “sana” la doppia famiglia), ma egualmente necessari, come due facce di una stessa medaglia. Per James Barrie le due famiglie sembrano quasi essere i due piani su cui egli non può fare a meno di costruire il suo stesso essere artista: da una parte quello necessario della realtà sociale santificato dallo stesso matrimonio e destinato, comunque al naufragio (ma non per volontà dello scrittore, ma per consapevole tradimento della moglie) dall’altro quello della sua sublimazione fantastica con i tre bambini che il drammaturgo non ha mai potuto avere e con la moglie energica e fantasiosa che la sua “vera” moglie non è mai stata capace di essere. Insomma, una contrapposizione tra il Reale e l’Immaginario tra ciò che è e ciò che si vorrebbe che sia, tra il mondo uncinesco delle convenzioni e la Neverland che si apre sotto i nostri occhi non appena decidiamo di arrenderci alle sollecitazioni del nostro mondo fantastico.
Fantasia e Realtà non sono, comunque, tra loro più inconciliabili di quanto non lo siano le due situazioni familiari vissute dal protagonista. Certo la fantasia è una via di fuga auspicabile dalle brutture dell’arido vero che costituisce la miseria della nostra stessa esistenza, ma una via di fuga che non è mai abbastanza lontana da quello stesso “Vero” verso cui non può fare a meno di tendere. Il mondo piratesco che Barrie e i bambini si costruiscono per sfuggire all’agghiacciante realtà della malattia, del crescere e del morire è, si, una sublimazione fantastica del mondo, ma non è impermeabile ad esso e dietro i colori pastello della fantasia fanciullesca si nasconde sempre un’ansia autunnale e sofferta che non può essere contraddetta. Di qui assume un peso drammaturgico particolare proprio il personaggio di Peter che non fa altro che opporre una strenua resistenza alla pur allettante fuga verso la fantasia che Barrie (il vero Peter Pan della situazione) non fa altro che proporgli. È Peter, allora, il vero anti Barrie, il vero Uncino, colui che sembra incapace ormai, perché la vita glieli ha strappati tutti, a coltivare possibili pensieri felici che diano alla sua immaginazione il potere incantatorio del volo. Sono le sue parole a “piombare” la fantasia e a far tornare tutto nel grigio autunnale di una giornata piovosa e vera. Ma, ed è qui uno dei motivi di fascino inesauribile della pellicola, tra Reale e Immaginario ancora una volta, non sembra esserci contraddizione, perché, e Peter lo capirà solo alla fine, essi sono due modi diversi di guardare la realtà e non due realtà a loro volta.
Come due modi di rapportarsi con il mondo sono il teatro (che è il linguaggio di cui si parla nel film) e il cinema (che è, invece, il linguaggio con cui si parla). Un’altra contrapposizione apparente tra l’arte del suggerire con la fantasia (il teatro, appunto, e la sua forma più primitiva e vera: il gioco dei bambini) e l’arte del mostrare con l’effetto speciale. Il film è una magnificazione fantasiosa del primo, certo, nel suo mantenersi in una precisa funzione di biopic di un drammaturgo, ma l’immagine finale, con la lunga dissolvenza incrociata sull’immagine magrittiana di James e Peter seduti sulla panchina segna, alla fine, uno scarto di enorme portata: l’abbandono della dorata superficie dello schermo e il desiderio inconfessato (che certo non ci saremmo aspettati da Forster, ma che, in fondo, è coerente con il suo mondo autoriale: si pensi ad Everything put togheter) di sprofondare nella coscienza e nel sentimento di ogni spettatore in sala.


CAST & CREDITS

(Finding Neverland); Regia: Marc Forster; sceneggiatura: David Magee; fotografia: Roberto Schaefer; montaggio: Matt Chesse; musica: Jan A. P. Kaczmarek; interpreti: Johnny Deep, Kate Winslet, Radha Mitchell, Julie Christie, Dustin Hoffman; produzione: Richard N. Gladstein, Nellie Bellflower; distribuzione: Buena Vista


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