Figlio di nessuno

L’altro è il nostro incubo ad occhi aperti. Soprattutto quando appare a tutta prima inconciliabile, distante, non riconducibile a noi.
Ci spaventa perché nel guardarlo siamo obbligati a scendere a patti con la nostra essenza più profonda. E quanto più ci appare mostruoso, tanto più ci riporta a quella bestia con cui abbiamo imparato a convivere così tanto bene che abbiamo quasi dimenticato che dorme nella cuccia accanto al nostro letto.
Non è un caso che possiamo trovare storie di ragazzi allevati da lupi o scimmie tanto del Barocco come del Settecento. Nel primo caso sono un anestetico dello shock culturale pieno della scoperta del Nuovo Mondo che davvero ci ha fatto conoscere selvaggi che neanche conoscevano la ruota. Nel secondo caso ha relativizzato ogni idea culturale arrivando a postulare il mito nuovo di un buon selvaggio che magari è anche meglio di noi, visto che sta così vicino allo stato di Natura che non conosce guerre e persecuzioni.
In entrambi i casi il racconto nasce da uno shock: quando davvero proviamo a comunicare con qualcuno diverso da noi siamo obbligati a confrontarci con l’immagine che questo, nel frattempo, si costruisce di noi. E questa immagine non è mai bella. Anzi spesso è un mostro che ha fatto finta di dimenticare di essere stato allevato dai lupi, ma che ancora azzanna e squarta se l’occasione è quella giusta.
Quando, in Figlio di nessuno, un bambino viene portato nell’orfanotrofio di Belgrado, dopo essere stato trovato nei boschi bosniaci, abbandonato in fasce e, così sembra, cresciuto dai lupi, la prima risposta è nel rifiuto. Quel bambino che non accetta vestiti e scarpe, che per mangiare svuota il piatto in terra perché ci arriva meglio con la bocca, è irrecuperabile. Non gli si potrà insegnare a parlare. Figurarsi a scrivere, leggere, fare di conto e cominciare a desiderare una famiglia ed un lavoro. Pućke, questo il nome che gli danno, è l’altro senza mezza termini. Ha due braccia e due gambe come noi, ma è cresciuto in nostra assenza secondo modelli che neanche riusciamo a dire culturali: ha imparato la logica del branco ed è, a tutti gli effetti, un piccolo lupo.
Questo bambino, però, a contatto con altri reietti del vivere sociale, con i bambini abbandonati di un orfanotrofio che sono a loro volta un altro branco immerso nel deserto affettivo della nostra indifferenza, comincia a reagire a certi stimoli. Gioca con una biglia, accende la luce elettrica, impara a sedersi a tavola e alla fine parla pure e scrive. Finisce addirittura le scuole elementari.
La sua non è, però, uno storia di integrazione. Nel suo accettare le logiche del mondo sociale, gli resta addosso la logica del branco. Ha cambiato specie, forse – qui sta il dubbio – non modello comportamentale. E, infatti, il mondo che lo circonda gli resta un’incognita irrisolvibile, un dilemma senza soluzioni. È dove vive ora, non il suo habitat. E le cose della vita gli scorrono addosso senza che riesca davvero a capirle, farle sue.
Il regista di Figlio di nessuno, Vuk Ršumović, è bravissimo nel tenere le giuste distanze per farci sentire l’inconciliabilità tra il nostro mondo e questo bambino lupo. Lo vediamo scrivere, ma non vediamo cosa scrive. Lo mettiamo in una classe e lo sentiamo fuori a sognare i boschi di un’infanzia che è sempre più vicina del nostro oggi incomprensibile. Quanto più il bambino si avvicina al nostro mondo, tanto più la macchina da presa smette di stare nei suoi occhi e si fa oggettiva per partecipare meglio al suo disagio esistenziale che è anche il nostro perché noi per primi non sappiamo cosa fare con lui.
Nessuna mamma gli ha insegnato ad amare e lui resta sempre un cucciolo anche un po’ pericoloso (Žika, il suo primo amico, se lo vive come un animaletto domestico, grida che è suo quando glielo vogliono togliere e non ha troppi rimorsi ad abbandonarlo quando il padre torna a prenderlo anche se solo per farlo lavorare).
Proprio per questa sua posizione esterna Pućke è la figura ideale per tornare a parlare di conflitto balcanico. Il bambino è circondato dai segnali sparsi di una guerra che comincia e che non può capire neanche quando gli mettono addosso una divisa e un fucile tra le mani. Dall’alto della sua alterità lui riesce ad essere qualcosa di più di un bambino che subisce l’orrore della guerra. La sua storia non è semplicemente il racconto di un’infanzia negata dalla guerra, ma il grido alto di uno stato di Natura che certo è e resta bestiale, ma non è per questo mostruoso come solo noi sappiamo troppo spesso essere.
(Ničije dete); Regia: Vuk Ršumović; sceneggiatura: Vuk Ršumović; fotografia: Damjan Radovanović; montaggio: Mirko Bojović; musica: Jura Ferina, Pavao Miholjević; interpreti: Denis Murić (Pućke), Pavle Čemerikić (Žika), Isidora Janković (Alisa), Miloš Timotijević (Ilke); produzione: Miroslav Mogorović (Art&Popcorn); co-produzione: Vuk Ršumović (BaBoon Production), Ankica Tilic (Kinorama); distribuzione internazionale: Soul Food Distribution; origine: Serbia, 2014; durata: 95’
