Nightmare

Qualcuno dice che Michael Bay sia uno dei più grandi disastri che si siano abbattuti sul cinema americano negli ultimi trenta anni.
A noi, che da anni ne seguiamo la carriera con un pizzico di preoccupazione e qualche soprassalto di ammirazione cagionato dalla sua indubbia capacità di gestire tempi e spazi della messa in scena, comincia a sembrarci più un’arca veterotestamentaria che si appresta a salvare qualche esemplare di animale cinema dall’avvento di un novello diluvio universale. Non è lui, insomma, l’evento catastrofico che si è già abbattuto sul nostro mondo di celluloide. Né lo sono le nuove tecnologie del digitale (che lui impiega a dismisura) o del 3D (che lui guarda con diffidenza, da convertito non del tutto convinto). Il vero diluvio è, piuttosto, la confusione mediatica di un mondo che si è talmente assopito nel sonno delle immagini, da non essere più capace di distinguere ciò che è “buono” da ciò che non lo è, ciò che è originale da ciò che è fotocopia.
In fin dei conti ci sembra enormemente più dannoso un telegiornale che “usa” l’immagine per convincerci a comprare (a questo servono ormai le notizie) che non un giocattolone costosissimo che mette insieme attori in carne ed ossa e robot giganteschi. Entrambi vendono una merce, ma il secondo non pretende di fare informazione.
Come un novello Noè che si aggira nel sottobosco del mito collettivo, Michael Bay sembra sentirsi incaricato da Dio a preservare qualcosa dal grado zero della memoria storica del pubblico. E come il profeta biblico che costruiva la sua immensa arca nel deserto, il regista dei due (presto tre) Transformers sa bene che la sua azione si tira addosso gli strali di tutte quelle persone che ancora non vedono una nuvola in cielo. Quello che si perita di salvare dall’ecatombe non è, però, come verrebbe a tutta prima di pensare visto che tanto si occupa di remake, un film. Michael Bay non è il topo da biblioteca che pensa bene, come facevano i monaci di Il nome della rosa, di salvare dall’oblio gli amati volumi del sapere di un tempo ricopiandoli su nuove pergamene. Ci sembra, piuttosto uno dei famigerati uomini libro di Truffaut che imparano a memoria i testi amati, ma sostituiscono la parola stampata (illegale nel mondo del futuro) con quella proferita. La sostanza, per quanto si voglia obiettare, non è più la stessa perché una cosa è leggere una pagina stampata, altra cosa è sentir recitato un testo del passato. Allo stesso modo Bay quando si ingegna (più come produttore che come regista, ad onor del vero) a rifare, in nuova salsa, i film più cult del passato non è interessato tanto al film in sé (anche se quel film doveva averlo amato, ragazzo, altrimenti non gli sarebbe mai venuto in mente di rifarlo ad uso delle nuove generazioni), quanto all’archetipo narrativo che lo aveva sostanziato. Era capitato al primo Venerdì 13, era capitato a The Texas chainsaw massacre e ad Amityville; tocca ora a Nightmare che perde per strada Wes Craven e si fa più digitale e modaiolo.
A Bay produttore (ma anche al Bay regista, in fondo) il film interessa non come testo, ma come griglia, come intersezione virtuale di modelli narrativi e di strutture archetipali. Al grado zero della narrazione, posizione dalla quale Bay produce i suoi film, non interessa tanto che una storia sia già stata raccontata (la presunta originalità del testo), interessa, piuttosto, la sua infinita replicabilità, la possibilità di raccontarla ancora ed ancora al di là della sua codifica in un testo.
Nightmare segna un passo strano nel bisogno del cinema di proporsi in una sorta di nuova oralità. Bay non è Gus Van Sant che guarda ai film del passato dalla prospettiva del pittore e del museo, ma è un regista (ed un produttore) che pensa che il cinema sia molto più vicino alla barzelletta raccontata al compagno di viaggio che non al libro stampato che si legge quando si è soli in quello stesso viaggio.
Nella prospettiva della critica d’arte Nightmare è un film fiacco e disomogeneo, troppo appiattito sul modello per suscitare interesse e troppo ansioso a trovare nuovi spunti microtestuali (l’idea dei mini sogni che turbano la percezione del reale dei soggetti provati del sonno, ad esempio) per esserne una semplice fotocopia. Al sociologo potrà interessare per i riferimenti agli episodi di pedofilia del contesto che lo vede uscire nelle sale (la più significativa variazione nel mostro che per Craven era assassino anche quando era in vita, mentre nella nuova versione era “semplicemente” un pedofilo). E, a ben guardare, si potrà dire che mentre la nuova edizione privilegia la dimensione chimico-fisica del sonno, Craven pensava a Freud o, più ancora a Jung, alla fiaba e alle simbologie religiose. Ma tutti questi sono dettagli che ci portano lontani dal cuore di quella che è l’azione remake di Bay. Per lui, infatti, non è tanto questione di rifare o rifarsi ad un modello, quanto quello di impadronirsi di una struttura. E in questa prospettiva tutti i film remake sono i capitoli sparsi di un’avventura che forse non lascerà il segno nella storia del cinema, ma si è intrufolato meglio di tanti altri nel groviglio di contraddizioni della nuova oralità del linguaggio audiovisivo. Bay già parla alle generazioni che usano i videofonini come stilo con cui parlarsi. Lui ha solo più soldi, più mezzi e più stile. E, probabilmente, non è neanche del tutto consapevole della strada che sta intraprendendo.
(A Nightmare on Elm street); Regia: di Samuel Bayer; sceneggiatura: Wesley Strick, Eric Heisserer; fotografia: Jeff Cutter; montaggio: Glen Scantlebury; musica: Steve Jablonsky; interpreti: Jackie Earle Haley, Kyle Gallner, Rooney Mara, Katie Cassidy, Thomas Dekker, Kellan Lutz, Clancy Brown, Connie Britton, Lia Mortensen, Julianna Damm, Christian Stolte, Kurt Naebig, Don Robert Cass, Bob Kizer, Parker Bagley, Jennifer Robers, Tania Randall, Rob Riley, Dominick Coviello, Kyra Krumins; produzione: New Line Cinema, Platinum Dunes; distribuzione: Warner Bros; origine: USA, 2010; durata: 95’
