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Noi due sconosciuti (Conferenza stampa)

Pubblicato il 6 giugno 2008 da Carlo Dutto


Noi due sconosciuti (Conferenza stampa)

Roma. Dopo aver cambiato il titolo italiano da Oltre il fuoco a Noi due sconosciuti (un titolo già uscito in Italia, nel 1960 con Kim Novak e Kirk Douglas) e dopo essere stato presentato alla recente edizione della Festa del Cinema di Roma, arriva sugli schermi il bellissimo Things we lost in the fire, firmato dalla regista danese Susanne Bier. Protagonisti: due intensi Halle Berry e Benicio del Toro. Un interessante sforzo distributivo vede l’indipendente Teodora Film promuovere il film in Italia con un centinaio di copie, prodotto da una major statunitense, la Dreamworks in collaborazione con la Paramount. Un film fieramente off-Hollywood, girato negli States ma montato dalla regista nella natia Danimarca con la fidata e “rodata” Pernille Bech Christensen. Il film esce in concomitanza con un cofanetto di 5 film della regista che annovera i titoli: Affari di famiglia, Una volta nella vita, Credo, Non desiderare la donna d’altri e il recente Dopo il matrimonio. La regista, Susanne Bier ha incontrato i giornalisti al cinema Eden di Piazza Cola di Rienzo a Roma.

Che difficoltà ha trovato nel lavorare a una produzione statunitense, dovendo dirigere due stelle come Halle Berry e Benicio del Toro?

Devo dire che le differenze nel dirigere due attori come loro e gli attori danesi che finora hanno collaborato con me non sono molto grandi, se non che a Hollywood gli attori hanno un alone da star che li precede, a partire dal fatto che sul set arrivano ognuno con un seguito di cinque auto, per i costumi, i parrucchieri, lo staff personale. Un entourage divertente, ma che risulta più complicato a livello di organizzazione lavorativa. Devo dire comunque che sul set i due attori sono stati davvero fondamentali, hanno dato tutto, si sono spogliati del loro divismo e sono stati creativi, innovativi. Benicio arrivava ogni mattina sul set preparatissimo sul copione e dava suggerimenti importantissimi per sviluppare il suo personaggio. Questo cerco sempre di ottenere dagli attori: facendo emergere la loro energia, vado alla ricerca dei momenti unici di verità.

Da dove nasce questo progetto cinematografico?

Ricevo costantemente centinaia di sceneggiature e su circa duecento ricevute recentemente mi sono trovata davanti a circa una decina di script interessanti, ma erano già stati tutti opzionati per altri registi. Quindi mi è arrivata la chiamata di Sam Mendes (regista di American Beauty e Jarhead, ma anche produttore, ndr) che mi ha proposto questa sceneggiatura meravigliosa. Leggendola, ho trovato personaggi veri, esseri umani non stereotipati come cartoni animati, una storia che mi ha subito commosso e in più, quando sono andata a Los Angeles per parlare con i produttori della Dreamworks ho trovato gente davvero gentilissima e disposta a lasciarmi dirigere un mio film personale. Mi hanno ribadito: ‘Se avessimo voluto fare un film hollywoodiano, non avremmo chiamato a dirigerlo una regista danese…’

Alla luce dell’ottimo risultato del suo film, così anti-convenzionale rispetto ai canoni statunitensi, rifarebbe un’esperienza del genere negli Usa?

Spero sinceramente di poter avere un’altra possibilità del genere! Devo dire che spesso mi annoiano i film europei, sono troppo auto-referenziali: i registi in Europa spesso parlano solo di sé stessi e di quanto sia migliore il loro cinema rispetto a quello statunitense, che farebbe sempre schifo. Ma se poi andiamo a vedere la classifica dei 10 migliori film dell’anno, molti di questi sono targati Usa. Io stessa credo che gli studios americani si stiano mettendo molto in discussione, un fatto molto importante per il cinema di qualità. Io stessa, che non ho mai avuto pressioni sul set, preferisco avere delle resistenze quando giro piuttosto che girare una scena male. Con un po’ di resistenza dall’altra parte, sento che combatto meglio per imporre le mie idee e così mi impegno di più e se queste idee, al contrario, non sono abbastanza forti, allora muoiono da sole.

Rispetto alla sceneggiatura originale di Allan Loeb, cosa ha cambiato in fase di riprese? Vedendo il film si nota un grande lavoro sul montaggio temporale della vicenda, con flashback molto incisivi sulla vita del marito di Halle Berry prima della morte.

Ho apportato delle modifiche alla sceneggiatura, soprattutto nell’inizio e nel finale. La storia si presentava raccontata in maniera più lineare, con i primi 20 minuti che introducevano la vita della famiglia e scene di David Duchovny prima della morte. In fase di montaggio ho notato che si trattava di un tempo troppo lungo, ci si metteva troppo ad entrare nella vicenda dell’elaborazione del lutto e risultava un inizio anche noioso, così ho anticipato delle parti e usato i flashback per raccontare la vita di David prima della morte. La scena finale così come era scritta nella sceneggiatura prevedeva solo la corsa della bambina dietro la macchina con Benicio del Toro, ma ho creduto di dover chiudere accennando al sentimento del lutto che si evolve verso un futuro più di speranza.

Nella sua recente filmografia si può rintracciare un curioso filo rosso sui triangoli sentimentali con l’ombra della morte dietro. Una sua personale ossessione cinematografica o semplice caso?

E’ buffo, ma anche Open Heart ha lo stesso triangolo, credo che sia legato al mio fascino per la compagnia maschile, per i rapporti di amicizia maschili o tra fratelli che vengono in qualche modo lambiti e vissuti con la presenza di una donna. Comunque non ho mai analizzato me stessa attraverso i miei film in modo così approfondito.

Un’altra ossessione che sembra avere, vedendo i suoi film, è quella dell’acqua..

Ritengo che analizzare le proprie ossessioni sia oltre che pretenzioso, anche pericoloso. E’ vero che spesso rifletto sull’acqua e mi affascina, ma preferisco non parlarne.

Il film narra di dipendenza, dalle droghe e dall’amore: cosa significa per lei essere dipendente da qualcosa?

Sono due dipendenze ben diverse, io volevo sottolineare il dolore che provoca la dipendenza, spesso descritto nei film come un qualcosa di sensuale, di attraente. Io non ho voluto dare questo senso seducente, volevo mostrare cosa significhi perdere la dignità in nome di una dipendenza, cosa significhi diventare schiavi di qualcosa. Si diventa senza controllo, anche amando qualcuno che è morto, si provano emozioni cui non si riesce a reagire. Tutto deriva secondo me dal fatto che viviamo in un’epoca in cui c’è l’ossessione del controllo su tutto, e ciò che non riusciamo a controllare ci fa paura.

In Noi due sconosciuti si possono ammirare numerosi primi piani dei personaggi e in particolare dettagli degli occhi dei protagonisti. Da cosa è stata dettata questa netta scelta estetica?

E’ vero, sono elementi estetici, inquadrature non previste nella sceneggiatura, che ho voluto io. I dettagli sugli occhi o sulle labbra mi permettono di creare delle immagini astratte: non sono più ‘solo’ occhi, ma sono il veicolo attraverso cui ad esempio riusciamo a capire cosa pensa Halle Berry durante le reazioni a prima vista impenetrabili alla morte del marito. Il suo personaggio durante il film si trova in confusione, non riesce a spiegare nulla a sé stessa, ha i sentimenti devastati e combatte per sopravvivere e per far crescere i propri figli. Capiamo cosa pensa e cosa prova grazie ai dettagli sui suoi occhi.

Roma, 3 giugno 2008


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