Noi siamo infinito

Oggi come oggi, il 3D ha ancora bisogno degli occhialini.
Ci sono, però, film che gli occhialini li mettono sul cuore e sono lì per proteggerti, per tenerti al sicuro quanto più possibile dagli scossoni che la vita, prima o poi, ti assesta.
La tridimensionalità non è, per questi piccoli miracoli di luce su uno schermo, una profondità che ti risucchia in un gorgo di finzione, né uno schiaffo di spettacolo che ti viene addosso col divertimento dei lunapark. No! Qui la tridimensionalità è quella dei sentimenti, delle emozioni piccole, dei ricordi più segreti. Qui la tridimensionalità è quella del bisogno di raccontare una storia per esorcizzare fantasmi veri e per tener lontani mostri reali su quel sentiero che chiamiamo crescere. Qui la tridimensionalità ti viene dal fatto che, per un momento, il cinema, se non è finestra sul mondo è almeno lumicino in una stanza a tener lontane paure che sono di tutti e, quindi, anche mie.
Comincia in una stanza, The perks of being a Wallflower (il titolo italiano Noi siamo infinito, seppur non sballato confonde fatalmente la fine con l’inizio). Comincia in uno spazio angusto, nel chiuso di un’anima chiusa anche a se stessa. Comincia nelle incertezze al dirsi e all’essere di ragazzi come tutti noi siamo stati.
E prosegue in un tunnel da attraversare di corsa. Nella ricerca speranzosa di un’uscita che sia prima di tutto uscita da noi, dalle nostre ansie, dalla nostra incapacità ad accettare altro amore che non sia quello che pensiamo di meritare. Sempre troppo poco.
Nello spazio tra la camera e la fine del tunnel c’è qualche canzone, a rendere la notte meno buia, ed una storia che è talmente piccola, nel suo essere enorme, che a raccontarla la si rovinerebbe irrimediabilmente.
Come sempre, nel cinema migliore, la poesia è una questione di sguardo e non di cose. La capacità del cineasta non è quella di mettere l’infinito nel riquadro dello schermo (per questo basterebbe, in fondo, un grandangolo abbastanza potente), ma quello di cercare l’infinito nelle gocce d’acqua. Consapevoli che, il più delle volte, queste gocce sono lacrime che non abbiamo avuto il coraggio di piangere.
Per questo il titolo italiano è sbagliato. Perché tra la carta da parati della stanza di inizio film e l’ignoto che si spalanca alla fine del tunnel sceglie il secondo lasciandoci intendere che non c’è stato pianto in mezzo. E la domanda è sempre quella: perché noi italiani cerchiamo ancora, anche nelle storie di formazione che ci arrivano dall’America più piena, le sicurezze mocciane dell’amore coi lucchetti?
Chi ha scelto il titolo italiano, in fondo, ha dimenticato che la tridimensionalità fa sembrare la carta da parati dello schermo un universo intero, ma che, perché la magia sia, occorre indossare degli occhiali. E tutto il film, in fondo, è la storia di quanta fatica ci sia ad indossarli e di quanta fatica ci sia nell’essere se stessi in un mondo che ci vuole solo comode maschere.
Stephen Chbosky adatta il suo romanzo (quello l’avevano tradotto qualche tempo fa con un più azzeccato Ragazzo da parete) con la consapevolezza che nessun altro avrebbe potuto farlo. Nessun altro, al cinema, sarebbe stato capace di trovare la giusta distanza tra la storia e il pubblico. Chiunque altro avrebbe tagliato, semplificato, guardato dall’alto.
Chbosky, al contrario, racconta ragazzi senza paternalismi. Racconta il loro mondo senza uscirne fuori. Non condanna, né ammonisce: solo ne racconta l’incertezza, la precarietà, i timori. Se c’è una canna o un acido è perché ci stanno e non per farci sopra un trattato sociologico ad uso delle ipocrisie del pubblico. Se ci sono storie di abusi c’è anche il bisogno di stringersi l’un l’altro in cerca di un conforto che sia vero a noi per primi. E in queste storie il regista ci sta dentro, ad ogni passo, assecondato da un terzetto d’attori in stato di grazia. E, se Emma Watson si scrolla di dosso i panni di Hermione, è Logan Lerman la rivelazione più vera del film. Senza il suo Charlie la pellicola varrebbe meno della metà di quel che invece vale.
(The perks of being a Wallflower); Regia e sceneggiatura: Stephen Chbosky; fotografia: Andrew Dunn; montaggio: Mary Jo Markey, Yana Gorskaya; interpreti: Logan Lerman, Emma Watson, Nina Dobrev, Ezra Miller, Paul Rudd, Dylan McDermott, Mae Whitman, Melanie Lynskey, Kate Walsh, Johnny Simmons, Zane Holtz, Nicholas Braun, Reece Thompson; produzione: Mr. Mudd, Summit Entertainment; distribuzione: M2 Pictures; origine: USA, 2012; durata: 102’
