Non aprite quella porta 3D

The Texas chainsaw massacre è stato un film seminale sotto molti punti di vista.
Qualcuno dice sia stato l’apripista della svolta politica dell’horror americano, il momento di più lucida riflessione auto consapevole delle storture e degli orrori che possono celarsi dietro le villette a schiera, le feste paesane, le pannocchie abbrustoliste e la carne al barbecue.
Si è trattato, ad ogni modo, di un film sporco, lercio, girato con rabbia e gusto per l’eccesso che è andato sullo schermo quasi per caso, senza che nessuno credesse veramente sul suo appeal autoriale. Non uno slasher qualunque, verrebbe da aggiungere, come starebbe a dimostrare il numero esiguo di sequel a fronte, incredibilmente, di un gruppo ancor più esiguo di epigoni. Perché se è vero che i seguiti sono stati appena quattro (di cui solo uno, assai debole ad opera dello stesso Hooper che aveva firmato il malato capostipite) è anche vero che The Texas Chainsaw massacre (titolo italiano assai poco comprensibile: Non aprite quella porta) ha fatto scuola senza avere reali proseliti, è stato un maestro, ma gli alunni andavano tutti nell’altra classe pur restando nello stesso edificio.
Craven è stato, per certi aspetti, un vicino di poetica, ma non è mai stato così malato e la malattia che c’era nei suoi film passava per la lente altra dell’antropologia. Cunningham, che scavava negli squartamenti con minor gusto disturbante, è stato più mestierante che autore. Carpenter era troppo geometrico per spargere sangue che non serviva ai fini del racconto. Lustig, recentemente rifatto, il suo Maniac, da Franck Khalfoun, è, forse, quello che ci è andato più vicino: il che è tutto dire.
In realtà, più dei Venerdì 13 (Il primo e tutti gli altri film della serie parti I e II) e dei Nightmare, più degli Halloween e degli Scream, Non aprite quella porta è irripetibile. Nasce da un incontro tra un autore, una storia, un contesto e tanta rabbia ed è questa una ricetta che può funzionare una volta sola.
Già non capimmo, sinceramente, qualche anno fa (si era nel 2003) il Non aprite quella porta di Nispel, ci sfuggì ancor più il senso del successivo Non aprite quella porta: L’inizio: due esempi, in fondo, di un tentativo di riportare nel solco garbato del genere taglia e squarta la dimensione perturbante del capolavoro del 1974.
Oggi, complice la regia di John Luessenhop si ritorna sul luogo del delitto con la stessa mancanza di fantasia dell’ultima Hollywood sempre intenta a raschiare come meglio può il fondo del pentolone.
Due sono le novità relative offerte da questo sequel in vena di saldi: le possibilità steroscopiche del 3D che garantiscono (o dovrebbero) un maggiore coinvolgimento del pubblico nel racconto, e i riferimenti al cinema più autoriale di Rob Zombie che, coi suoi remake di Halloween 1 e 2 (e non solo) da qualche anno porta sullo schermo americano l’idea delle famiglie disfunzionali e degli orrori che vi si possono annidare.
Sul 3D c’è poco da dire: la spesa non vale l’impresa. Pagare due, tre euro in più per vedere due lettere del titolo e la motosega di Leatherface venirci addosso non è il massimo della soddisfazione.
Sulla questione Rob Zombie siamo invece nella dimensione del puro riciclo di idee, stili ed atmosfere per dare una parvenza di novità ad un racconto che ricalca il film di Hooper arrivando in qualche misura a riproporne intere sequenze in un calco che più che omaggio sfocia nel plagio puro e semplice.
In breve il film è appena un bodycount in cui le vittime sono insolitamente poche e vengono fatte fuori in modi talmente privi di fantasia da togliere all’immagine anche quel minimo barlume di ironia che in genere si respira in prodotti così tardi di un’estetica al fondo stanca anche se non del tutto esaurita.
Gli attori sono carne da macello, puri e semplici corpi di profanare per il gusto di un pubblico adolescenziale che, forse, si diverte pure un po’, ma solo se è abbastanza digiuno di genere ed ha pagato il biglietto solo per limonare (la qual cosa può essere un impaccio visto che si devono tenere, inutilmente, gli occhialini inforcati sul naso).
Qualche critico ha salvato dalla zattera di Gericault Alexandra Daddario. Forse, effettivamente, è il meno peggio di tutto il film.
(The Texas chainsaw massacre); Regia: John Luessenhop; sceneggiatura: Debra Sullivan, Adam Marcus; fotografia: Anastas N. Michos; interpreti: Alexandra Daddario, Scott Eastwood, Bill Moseley, Tania Raymonde, Richard Riehle, Shaun Sipos, Gunnar Hansen; produzione: Lionsgate, Nu Image Films; distribuzione: Moviemax; origine: USA, 2013; durata: 92’
