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NON BUSSARE ALLA MIA PORTA

Pubblicato il 13 settembre 2005 da Alessandro Izzi


NON BUSSARE ALLA MIA PORTA

È l’America del sogno, del mito, quella che Wenders racconta in questa sua ultima opera presentata al cinquantottesimo Festival di Cannes. Un luogo/non luogo, un’eterna frontiera in cui i personaggi si muovono come spaesati, sempre preda di quel sentimento ambiguo che vive tutto in quella zona d’ombra che c’è tra l’ansia dell’abbandono di un posto che è ancora possibile chiamare casa e i timori per un mondo nuovo ancora da esplorare e conoscere. Sono lontani, quindi, i toni apocalittici di La terra dell’abbondanza, come è lontana la viva preoccupazione per il futuro dell’immagine e del cinema di un’opera forse troppo sottovalutata come Crimini invisibili. Wenders sembra, piuttosto, prendersi una proficua vacanza dalle sue preoccupazioni maggiori, dalle sue paure per il futuro non solo del cinema, ma dell’intera società occidentale per dedicarsi, come fece ai tempi di Paris,Texas (altra pellicola partorita dalla fervida collaborazione con Sam Shepard), al puro gusto di narrare una storia, di abbandonarsi al semplice piacere del raccontare. Un Wenders fotografo più che un Wenders filosofo o sociologo, insomma, un autore che accetta di mettersi dietro la macchina da presa per soddisfare il solo desiderio di attraversare, con gli occhi curiosi e appassionati, luoghi e sentimenti, con la voglia mai sopita di lasciarsi incantare dalle meraviglie del mondo che lo circonda. Don’t come knocking è, quindi, il racconto di un “attraversamento”, un intenso piano traveling a metà strada tra i paesaggi del mito (con i continui riferimenti alla pittura di Hopper e i ricordi affettuosi del cinema del passato) e quelli della coscienza di un personaggio che non riesce a far altro se non viaggiare nel disperato tentativo di ritrovare se stesso e la propria posizione nel mondo. Insomma come nel gemello americano di tanti anni fa, anche in questo film a contare più di tutto è il bisogno di ritrovare uno spazio personale, un legame con il territorio, un cordone ombelicale, non importa quanto lontano, che possa in qualche modo chiamarsi “home” e che possa arrestare quel movimento certo incantevole, ma alla fine sfiancante che è il viaggio senza meta di tanti personaggi wendersiani. Ed è in questa ricerca che si dipana, in quest’ultima fatica del regista, un viaggio che dal nulla di un nucleo relazionale dominato dalla falsità (qual’è il set cinematografico dal quale fugge all’inizio il personaggio) passando per la tappa intermedia del ritorno al grembo materno, finisce nel ritrovamento di due figli perduti e mai conosciuti. Ma le similitudini con Paris, Texas si esauriscono tutte qui perché tra i due film si ravvisano delle differenze stilistiche ed anche contenutistiche assolutamente incolmabili anche, e forse, soprattutto, in virtù delle incredibili assonanze che a tutta prima ci pare di riuscire a ravvisare. Da questo punto di vista è totalmente fuorviante cercare di leggere Don’t come konocking come un gemello forse più comico di Paris, Texas perché diverse sono le direttive, diverse le motivazioni, diversa la consapevolezza che l’autore riversa sulla storia che va raccontando. Se Paris, Texas è, infatti la storia di un uomo che ha perso il proprio passato e che anela disperatamente al ritrovamento delle proprie radici, Don’t come knocking è invece il racconto di un uomo alla ricerca di un proprio presente, di una propria dimensione che gli permetta di guardare l’oggi con rinnovata fiducia. Se il primo film era la storia dolorosa della scoperta della propria incapacità a sostenere un legame profondo ed imperituro con gli altri al punto che al protagonista non restava altra scelta, di fronte al male dell’incomunicabilità, se non quella si allontanarsi da quel nucleo familiare che pure aveva contribuito a ricreare, Don’t come knocking è, invece, il racconto di un’apertura, di un’autocoscienza sia pur dolorosa, ma destinata a gettare, comunque, i semi per un futuro migliore. Un film ottimista, alla fine, un’opera pervasa da uno spirito autunnale di commedia (e pare che Wenders si stia finalmente impadronendo dei tempi di questo genere che corteggia con alterne fortune sin dai tempi di Arisha e di Lisbon story) da parte di un autore che, pur ripetendo temi già abbondantemente sviscerati in opere sicuramente maggiori, riesce, comunque, a destare ancora simpatia e partecipazione. Un film con i soliti difetti (la relativa unidimensionalità dei personaggi femminili), ma con l’indubbio pregio di annoverare un cast risplendente che lavora affiatato nella consapevolezza palpabile di essere parte costitutiva del sogno di uno dei più importanti registi del panorama internazionale. Nel bene come nel male.

Cast & Credits

(Don’t come knocking); Regia: Wim Wenders; sceneggiatura: Sam Shepard, Wim Wender; fotografia: Franz Lustig; montaggio: Peter Przygodda, Oli Weiss; musica: T-Bone Burnett; interpreti: Sam Shepard, Jessica Lange, Tim Roth, Gabriel Mann, Sarah Polley, Eva Marie Saint; produzione: Peter Schwartkopff per Reverse Angle; distribuzione: Mikado

[Settembre 2005]

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