Non è mai troppo tardi
Argomenti quali la malattia e la morte rappresentano, fra tutti, i massimi fattori di sconcerto per le popolazioni delle ultra-moderne società occidentali, quando sopraggiungono. Per conseguenza, essi si caratterizzano come le due principali materie tabù nei discorsi quotidiani, così come nelle opere d’arte più recenti. Il semplice dato di fatto che, prima o dopo, tutti dovremo morire, è un concetto relegato a forza dalle persone in un angolino della propria mente, mentre col tempo tutti impariamo a fingere, consapevolmente o meno, di dimenticarcene. In questa direzione veniamo naturalmente sospinti anche dagli innumerevoli input che piovono ogni giorno sul nostro capo da media e istituzioni, tutti tesi ad imporre i loro elevatissimi standard qualitativi alle rispettive collettività. Al singolo individuo viene inculcato, senza che egli se ne avveda o possa farci granché, un invincibile rifiuto a confrontarsi col sentimento del dolore, laddove “non esplicitamente richiesto”, o di sprecar del tempo prezioso a meditare su questioni ritenute troppo deprimenti. La produttività esige ritmi accelerati e costanti e non può soffermarsi nemmeno un istante a lasciarsi cullare da impulsi umani annichilenti, come la nostalgia o il rimpianto.
Questa deriva ha portato progressivamente a relegare luoghi deputati alla cura della malattia e al culto dei morti lontano dagli occhi e dal cuore della gente, così che quegli altri, i “produttivi”, possano continuare imperturbati e imperturbabili a svolgere il loro ruolo all’interno dell’invisibile ingranaggio, fino a quando saranno in grado di offrire prestazioni all’altezza. Poi verranno semplicemente gettati via e sostituiti con nuovi pezzi di ricambio, senza tanti ringraziamenti. E tuttavia, anche di questo, in molti paiono scordarsi.
Poi, però, avviene magari che una qualche terribile malattia, colpisca indiscriminatamente un influente business-man (Nicholson) o un semplice meccanico (Freeman) e che il destino faccia incontrare persone tanto diverse proprio nel momento in cui la vita le pone di fronte al momento di gran lunga più traumatico delle rispettive esistenze. Poche altre cause riescono evidentemente ad unire gli uomini in una solidarietà più profonda e invincibile di quella che si instaura fra due malati terminali, a cui viene portato via tutto, e d’un colpo solo. Poi, dopo, questo “tutto” può essere rappresentato da una famiglia numerosa e amorevole, o, più prosaicamente, da un impero finanziario fondato dal niente: in entrambi i casi si tratta comunque del lavoro di un’intera esistenza, ottenuto a prezzo di sforzi considerevoli e che merita il massimo rispetto. Preme agli sceneggiatori sottolineare evidentemente soprattutto questo passaggio, ma non occorrono certo particolari sforzi d’immaginazione per crederlo. No, la questione sorprendente è evidentemente un’altra…
Figurarsi se siamo psicologicamente preparati a rinvenire simili questioni all’interno di un film per il cinema! Che dire, poi, se la produzione è addirittura hollywoodiana! Gli americani ci hanno abituati a ritrovare questi motivi ben tristi in quelle particolari produzioni televisive intitolate a vario genere come “film verità/dossier/cronaca”, mentre il puro entertainment permane un dominio presidiato dalle major. Divi della statura di Jack Nicholson e Morgan Freeman – qui impegnati in un’esaltante gara di bravura – si prestano generosamente, davvero anima e corpo, a questo progetto ardito. Certo, poi però l’entertainment di cui si diceva detiene anch’esso le sue regole, e il film (il plot, in primis) deve adeguarsi agli standard richiesti. E così il cuore della narrazione lascia largo spazio al divertimento e all’avventura, mentre la chiusa rientra a norma ortodossa nei canoni del film strappalacrime.
Il plauso, per quanto ci riguarda, va soprattutto al gigantesco Morgan Freeman: se Nicholson, 12 nomination agli Oscar al suo attivo (e ben tre statuette conquistate), non rinuncia a tratti ai suoi particolari vezzi interpretativi, Freeman “recita come respira”, tanto da non dare nemmeno l’impressione di non esser lui quel personaggio, per come gli aderisce! La mancata nomination per questo grande, si direbbe “invisibile” attore, spiace davvero.
Reiner, dal canto suo, non è certo uno sprovveduto e lavora soprattutto di sottrazione: da l’idea di disporsi silenziosamente da un lato ad ammirare il lavoro dei titanici protagonisti, mentre continua parallelamente nella sua personale ricerca di quelle pieghe del racconto che facciano emergere toni diversi da quello generale (in questo caso, il comico e l’avventuroso all’interno di una narrazione di stampo melodrammatico). Un’operazione che gli risulta sempre congeniale e che torna, anche qui, a dare i suoi frutti maturi.
La classe, insomma, non fa difetto a nessuno dei grandi nomi coinvolti nell’operazione, ma avremmo desiderato che ci venissero risparmiate alcune grossolanità rintracciabili nella fattura della trama, quali quelle onnipresenti sull’etica del perfetto americano (vedi il proporre con eccessiva insistenza la famiglia come il valore assoluto, unico appiglio possibile in un orizzonte di male e dolore, contro le mille dissolutezze del personaggio Nicholson, le cui ricchezze lo trovano solo nel momento del maggior bisogno). “I soldi non fanno la felicità”, vengono a dirci, insomma. Ma ciò provoca un sorriso, perché, senza i “prosaici” denari del perverso uomo d’affari, non sarebbero state neppure lontanamente pensabili tanta gioia e divertimento puri, in quei difficili ultimi giorni di vita, per i due “uomini al capolinea” (cui fa riferimento il più poetico titolo originale dell’opera, The Bucket List). In tale oscillare tra moralismo e trivialità, dipinti come connotati salienti dell’uno o dell’altro protagonista, sta tutto il sale del film. Personalmente riscontriamo un dosaggio un pò alto, per quanto attiene questa particolare specie di condimento. Gli stomaci più delicati potrebbero risentirne.
(The Bucket List) Regia: Rob Reiner; sceneggiatura: Justin Zackham; interpreti: Jack Nicholson (Edward Cole), Morgan Freeman (Carter Chambers), Sean Hayes (Thomas), Beverly Todd (Virginia Chambers), Alfonso Freeman (Roger Chambers); distribuzione: Warner; origine: USA 2007; durata: 97’; web info: Sito Ufficiale