Noosfera - Lucignolo

Lucignolo non è mai stato così cattivo, verrebbe da dire, se solo la formula non fosse così consunta dal linguaggio mediatico. Nello spettacolo di Roberto Latini, d’altronde, non c’è alcun Lucignolo vero e proprio, così come non ci sono altri personaggi, né diegesi. Ci sono solo le sue pupille bianche, la parrucca fulva, un cappio come fuoco scenico; c’è la capacità di questo attore di evocare immagini di grande impatto emotivo con pochi elementi: gli squilli senza risposta di un telefono invisibile, una sedia rovesciata, una risata prolungata fino al singulto. La risata è il primo gesto a riempire la scena: un ridere tutt’altro che liberatorio, ma nevrotico, angoscioso. È una risata che impedisce il racconto, una coazione a ripetere dettata da un dolore senza confini, onnipresente, come un ronzio di fondo. Ecco la risposta, ecco chi è il Lucignolo di Latini: semplicemente il male, un male non ontologico, ma esistenziale, un male che supera tutte le prosopopee in grado di controllarlo, che si fa intangibile in uno stillicidio di gesti incompiuti, vani, vuoti. Quando, con la testa china, l’attore sente il telefono squillare inutilmente, qualche strano cortocircuito mentale può dare l’impressione di essere nella stanza d’albergo dove Pavese si suicidò. L’intero spettacolo è come una crepa, sottile e profonda, tracciata su una parete scalcinata: il personaggio in scena ci racconta, col suo corpo, con i suoi rantoli, più che con le sue parole, di una promessa non mantenuta, o meglio, della consapevolezza di una promessa impossibile.
Latini realizza qualcosa di simile alla decostruzione semiologica di Andrea Cosentino: ogni tentativo di comunicazione fallisce, poche frasi riverberano in un deserto di senso, ripetendo sé stesse per confermare, inutilmente, qualche bagliore d’esistenza. Solo che, rispetto a Cosentino, la critica avviene con più lirismo, con più voce e gesto e immagine, in definitiva con più teatro e meno ironia, meno intellettualità. L’attore-autore mette al servizio di questo intento tutta la sua abilità nel gestire un’incredibile varietà di registri. Va però detto che la resa finale di Lucignolo è smussata da qualche limite. In primis, una volta entrati nel panorama mentale dello spettacolo, non ci sono altri movimenti, non c’è quella ragnatela di energie subliminali e tensioni che, come un fenomeno carsico, rendono una messa in scena meno prevedibile e più potente. La causa, o forse la conseguenza, è una gestione molto altalenante del ritmo. Molte scene, ad esempio, fra cui quella finale -una meraviglia visiva e simbolica, un battesimo al contrario, lattiginoso, così denso di sacralità tragica- perdono il vigore del primo impatto perché sfruttate fino all’eccesso.
"Essere parte di un coro è la possibilità che la tragedia da sempre ci regala", è la constatazione di Lucignolo. La storia di Pinocchio, sul palco, non è mai iniziata. Il burattino si risveglia al dolore e ci porta con sé, non nella bocca della balena, ma fuori dalla fiaba.
Di e con: Roberto Latini; Musiche originali: Gianluca Misiti; Luci e direzione tecnica: Max Mugnai; Organizzazione e cura: Federica Furlanis; Produzione: Libero Fortebraccio Teatro Visto al Teatro Argot di Roma.
