Giornate Internazionali del Cortometraggio di Oberhausen
Nel febbraio 1962, 26 registi firmarono un documento programmatico detto il Manifesto di Oberhausen che proclamava la morte del vecchio cinema, e la necessità di muoversi in direzioni nuove. Evento-chiave in profonda risonanza con parecchi analoghi sforzi sorti negli anni Sessanta in molte altre parti del mondo come la Nouvelle Vague francese, il Manifesto non poteva non essere omaggiato, nel suo cinquantenario, da quelle Giornate Internazionali del Cortometraggio di Oberhausen (26 aprile – 1 maggio 2012) che lo lanciarono e che restano ancor oggi con il “Festival International du Court Métrage” a Clermont-Ferrand la principale rassegna internazione del cinema corto. Ecco dunque Mavericks, Movements, Manifestos, corposa retrospettiva (la parte tedesca la si rivedrà in parte al prossimo Festival di Pesaro a giugno) sul cinema variamente di rottura di quegli anni in più nazioni. Una rassegna così imponente, dalle suggestioni storiche così folte, da oscurare le quattro retrospettive monografiche dedicate a registi contemporanei: Vera Neubauer, autrice ceco-britannica di cortometraggi di animazione, spesso a sfondo femminista; Linda Christanell, figura eccentrica della ricca scena sperimentale austriaca; Roee Rosen, geniale provocatore israeliano di grande acume concettuale e nudità espositiva; Ilppo Pohjola, curioso e poco prolifico sperimentatore finnico con un occhio originalissimo per i cliché di gender e l’immaginario connesso.
Pohjola è anche produttore di Marian Ilmestys di Eija Liisa Ahtila, tra i corti migliori di un ottimo Concorso Internazionale, abile intreccio tra racconto dell’Annunciazione e zoologia (come fa in un ambiente chiuso “immacolato” a prodursi il Nuovo?). Ahtila è una vecchia conoscenza di Oberhausen, così come Kevin Jerome Everson; uno dei due Premi Principali va al suo Ten Five in the Grass, misuratissimo ritratto documentario dell’inusuale mondo del rodeo afroamericano. Quella di invitare gli “habitué” è una delle tre linee-guida che la selezione del concorso lascia intravedere – ognuna delle quali rappresentata da uno dei titoli vincitori. L’altro Premio Principale va infatti a Reframing the Artist di Sascha Pohle, arguta riflessione sull’arte e sulla sua copia (scene tratte da celebri film sulla pittura vengono rimesse in scena da anonimi falsari cinesi), una delle molte interferenze tra cinema e arte contemporanea in competizione (la migliore: quel perfetto puzzle esoterico che è The Cloud of Unknowing di Ho Tzu-Nyen da Singapore). La terza tendenza è quella della giovani leve, degli esordienti o quasi. È il caso di Mich’ael Zupraner, vincitore del Gran Premio con Snow Tapes, in cui l’autore guarda una famiglia palestinese che guarda i propri (controversi, specie verso gli israeliani) filmini amatoriali, e affianca gli uni e gli altri in split-screen quasi come una sorta di Haneke politico e “engagé”, in una complessa operazione metalinguistica. Tra le altre “speranze” messe in luce dal festival, la già matura scrittura per ellissi di Sutanoy Chaudhury e del suo Padi, e il ritmo spietatamente serrato (e non ci si muove mai dal tavolino di un bar!) di Café Regular, Cairo, pamphlet politico-illuminista di Ritesh Batra. Con o senza manifesti, Oberhausen si conferma dunque tra le maggiori fucine di talenti in Europa.
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