Olè

Trovarsi di fronte ad un cinepanettone (chi sia il regista, chi siano gli attori sono dettagli assolutamente ininfluenti ai fini del risultato) è un po’ come trovarsi di fronte al paradosso dell’uovo e della gallina.
Ovvero: è il film ad influenzare le mode e a trasformare gradualmente, anno dopo anno, l’italiano medio facendolo inesorabilmente a propria immagine e somiglianza? O non è, piuttosto, la società italiana a declinare da sola e il film non è che il portavoce, spassionato ed innocente di questo inarrestabile tracollo di valori e di cultura?
Nella teoria la domanda può apparire stimolante e spingerci a complesse riflessioni di carattere sociologico, ma nella pratica, poi, nella dimensione del fare e del consumare cinema il paradosso, si riduce al solo imbarazzo tra lo scieglere se mangiare frittata a pranzo o pollo arrosto a cena.
Perché diciamocelo ancora una volta, tanto per farci un poco del male, il cinepanettone è, prima di tutto, una formula studiata a tavolino per una mera sopravvivenza alimentare.
Non quella degli autori che da sempre si cimentano nell’ardua impresa di far ridere platee colossali ed indifferenziate. Né quella degli attori che, gira e rigira, tra divorzi e litigi, son sempre gli stessi. Né quella dei distributori che certo tirano il fiato e fanno quadrare i magri conti dell’annata, ma non per questo riescono poi a navigare nell’oro. Nè quella dei gestori delle sale che, aperte durante l’anno per registrare magari tre presenze a giornata (mai così bassi neanche negli anni ’80) non possono poi gioire più di tanto per un pienone di una sola settimana o due.
L’esigenza alimentare è, piuttosto, quella del Cinema che mangia se stesso, che fa a brandelli la propria stessa carne per saziarsene come uno zanni dall’atavica fame e che, non per questo, a banchetto finito, può dirsi davvero sazio.
Anzi, di anno in anno, i morsi della fame aumentano, la furia con cui si fa a pezzi l’immaginario delle platee si fa rabbiosa e il processo è sempre più stanco di se stesso e della sua inutilità che comincia a diventare sempre più concretamente evidente.
Il cinema italiano non trova nel cinepanettone la concreta via al proprio risanamento e si offre alla società, che lo consuma inebetita, la triste, grottesca visione di un affamato che si avventa sulla frittata credendo di mangiare il pollo.
E’ per questi motivi che negli ultimi anni il film di Natale ha cominciato a registrare segni di cambiamento, malumori interni, esplosioni inaspettate ed indecisioni tra il bisogno di seguire i dettami della volgarità imperante e l’anelito ad un cinema di serie B più garbato e strutturalmente complesso. Fluttuazioni interne, queste, che hanno portato, quest’anno, al raddoppio della formula, alla produzione di due film: segno estremo non solo del tentativo famelico di mangiare due volte dallo stesso piatto (della serie: se proprio non si può avere il pollo allora perché non tentare con due frittate fatte con lo stesso uovo?), ma anche e soprattutto espressione della stanchezza della formula che si autoreplica nel timor panico della sua prossima estinzione.
Olè, primo nato tra due gemelli speculari, è perfetto esponente di tutte queste contraddizioni.
Come film esso parte con una precisa dichiarazione di poetica esemplarmente espressa nella sequenza titoli animata che lo apre.
Nella soleggiata Spagna di Don Chichotte e di Picasso si incontrano una simpatica mucca e un toro aitante e muscoloso. La fantasia del disegnatore, memore delle figure picassiane e dei colori espressionisti, segue da vicino i divertiti tentativi di corteggiamento del toro tra esibizione dei muscoli e regali di ogni sorta. Per ben due volte le avance del bel tipo si fanno troppo pesanti e per due volte il risultato è una sonora sberla che manda al tappeto il malcapitato macho. Ma anche il tentativo di conquistare la bella con un bel quadro finisce male quando si scopre che il dipinto, invece di ritrarre naturalisticamente la bella, appare piuttosto una scomposizione quasi cubista della stessa. Come a dire che il film decide aprioristicamente di mantenersi equidistante sia dalla volgarità eccessiva (i punti più "bassi" sono toccati dal solo personaggio di Salvi del tutto estraneo alla vicenda principale e con la sola funzione di alleggerimento al più tradizionale duetto Boldi-Salemme) che dalle pretese culturali troppo esorbitanti.
Proprio per questo il tema fondamentale scelto è quello della gita di classe all’estero (così come viene ancora tristemente pensata in Italia) dove la cultura è solo il pretesto, la patina scolastica per giustificare il solo anelito al divertimento.
Come in una gita scolastica la macchina da presa, immedesimata nello sguardo dello studente tipo italiano, si tiene volutamente fuori dai musei e dai luoghi di cultura, mentre penetra direttamente negli spazi delle discoteche e delle spiagge. Se una cosa manca a questa visione "scolastica" del mondo è una bella sortita nei corridoi degli alberghi, ma questa mancanza è giustificata dal fatto che tutto il film si concentra sul mondo e sulle storie dei professori perdendo di vista spesso (e troppo) il mondo dei ragazzi.
Del fatto che non si possa parlare di film di viaggio quando si parla di cinepanettone avevamo già scritto gli anni scorsi (clikka per leggere) come pure avevamo cercato di investigare sul problema della definzione di "comico" per questo genere di film (clikka per leggere) considerazioni, queste, che restano attuali pur col cambiare del prodotto al punto che quasi basterebbe cambiare il titolo al pezzo per mantenere intatto il discorso di fondo.
Questa volta, però, ci colpisce una strana peculiarità. Olè, di fatto, nasce per raddoppiare le possibilità d’incasso del periodo natalizio (ai litigi e ai divorzi crediamo relativamente poco), ma nasce anche al’insegna della nostalgia per un cinema disimpegnato (anni ’70/’80: ossessione inattuale dei Vanzina), ma non per questo becero. Ma il tentativo di tenersi lontano da un comico di bassa lega non è del tutto controbilanciato dal perseguimento (a questo punto obbligatorio) di una struttura forte capace di chiudere le gag in una narrazione compatta ed avvincente. Cercando di ridurre la volgarità di fondo, gli autori hanno finito per aggiungere elementi che diventano spesso incongrui. Sicché Salvi è sempre di troppo per la coppia comica principale, la Estrada aggiunge al tassello della commedia romantica un surplus di scambi di persona che non serve a niente, mentre dei ragazzi in gita si dimentica l’esistenza finché non diventano molla necessaria dell’intreccio. Anche i raddoppiamenti interni perdono efficacia e non si capisce bene il bisogno di inserire nel corpus della narrazione né la doppia Margherita/Maggie (due volti un solo nome) né quella Jack-Archiemede (due nomi un solo volto).
Probabilmente al pensiero di dover preparare una frittata con solo mezzo uovo si è preferito abbondare in spezie.
[Dicembre 2006]
(Olè); Regia: Carlo Vanzina; sceneggiatura: Carlo Vanzina, Enrico Vanzina; fotografia: Claudio Zamarion; montaggio: Raimondo Crociani; musica: Andrea Guerra; interpreti: Massimo Boldi (Archimede Formigoni), Vincenzo Salemme (Salvatore Rondinella), Enzo Salvi (Enzo Antonelli), Daryl Hannah (Maggie Granger), Natalia Estrada (Ana Montez), Francesca Lodo (Jennifer), Brigitta Boccoli (Margherita), Armando De Razza (Diego De La Vega), Niccolò Contrino (Ugo Antonelli); produzione: Medusa Film, International Video 80; distribuzione: Medusa; origine: Italia, 2006; durata: 104’; webinfo: Sito ufficiale
