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OLIVER TWIST

Pubblicato il 25 ottobre 2005 da Alessia Spagnoli


OLIVER TWIST

Portare Oliver Twist sul grande schermo rappresentava ben più di una sfida per Polanski: cimentarsi in una volta sola con un grande classico della letteratura mondiale - oltre che con quello cinematografico di Lean - ma soprattutto proporre ad un pubblico di ragazzi una storia di buoni sentimenti “senza magie, spade laser o altro”, era oltremodo rischioso già sulla carta.
Cosa può aver spinto il grande cineasta polacco verso Dickens? Il Polanski di un tempo sembrava piuttosto affine alle corde di un Kafka, specialmente quello degli esordi e almeno fino allo splendido Inquilino del terzo piano. Tuttavia, giova ricordarlo, già in passato si era misurato con grandi classici della letteratura inglese: dal Macbeth shakespeariano al Tess (dei d’Uberville) di Thomas Hardy. Eppure il Polanski di allora aveva sempre finito col piegare quei testi ad esigenze personali, giungendo a permearli della sua personale sensibilità e rendendoli parte integrante del proprio discorso autoriale, mentre qui l’aderenza al testo (fino a ¾ di film almeno) si fa addirittura calligrafica: risultano in tal senso da leggere come una sorta di dichiarazione di intenti - quella di porsi al servizio della storia come un altro illustratore fedele - i bellissimi titoli di testa e di coda ricavati da incisioni di Gustav Doré.
A ben vedere molti sono i tratti comuni tra Dickens e Polanski: sul piano formale entrambi manifestano un gusto marcatamente pittorico nella composizione delle scene. Inoltre il medesimo interesse per il particolare, l’infinitamente piccolo, li porta entrambi a frantumare la realtà nel suo complesso in atomi di esperienza vissuta. Quindi non dovrebbe destare meraviglia rimarcare come ciò che di più li unisce è un tratto poco rilevato per tutti e due: lo stesso umorismo fine, o meglio, la stessa ironia, talmente sottile da passare spesso inosservata per il lettore/spettatore superficiale, ma che costituisce una delle loro maggiori qualità (rientrano in tale ambito le geniali dissolvenze ironiche de Il Pianista, film interamente percorso da tocchi simili). Un’ironia con un retrogusto piuttosto sadico, se si pensa a tutti quei crudeli scherzi che il destino ha sempre in serbo per i protagonisti delle loro storie...
E poi l’ultimo Polanski story-teller ha acquisito un respiro classico che lo avvicina ulteriormente a uno dei più fini “sceneggiatori” della letteratura mondiale (di quante notazioni squisitamente “visive” sono intessuti i classici del romanziere inglese)!
Probabilmente dopo essere stato lungamente incensato per Il Pianista (Palma d’Oro e Premio Oscar) il grande regista polacco si sentiva le spalle larghe abbastanza da farsi carico di simili pesi. E forse desiderava distaccarsi parzialmente dalla carica d’oppressione presente in quel film...anche se non completamente. E già, perché Polanski, cineasta della claustrofobia, continua anche qui a proporre al suo protagonista tutta una serie di prigioni oppressive e limitanti: di là era il ghetto, poi il lager, via via ai vari rifugi provvisori e precari di Szpilman, fino a Varsavia vista come città senza via di fuga (un piccolo Oliver Twist era stato schizzato felicemente nella scena impressionante - la ricordate? - in cui un bambino tentava di rientrare nel lager dopo esserne sgattaiolato fuori e finiva massacrato). Anche in Oliver Twist per il bambino protagonista dopo l’evasione dall’orfanotrofio-carcere c’erano ad attenderlo solo altre limitazioni, come la misera stanza di Fagin o di nuovo la città, qui la Londra dell’800, che non permette ad alcuno di lasciarsela alle spalle, fino alla chiusa nella terribile prigione inglese. Il più noto fra i registi apolidi continua a vedere la vita come gabbia soffocante e propone un’altra storia di sopravvivenza: addirittura questo diventa un’impresa ardua e spossante (e in ciò è assolutamente “kafkiano” ancora oggi).
Allontanandoci ancora di più dalla superficie del film, ci accorgiamo altresì del fatto che Polanski continua pure il discorso autobiografico: egli è stato il piccolo Oliver, il bambino orfano abbandonato da tutti. Ma soprattutto prosegue la riflessione - vero leitmotiv della sua opera - sul tema del Male Assoluto: dopo aver mostrato come esso sconfini spesso nella follia più totale qui rileva con Dickens il suo apparentarsi anche con l’idiozia di ottusi funzionari dell’autorità e dell’ordine precostituito.
Quindi, più continuità che non il contrario rispetto alla sua opera precedente, anche se qui, ironia della sorte - e Polanski non può non averlo notato - è l’ebreo il cattivone della vicenda. Ben Kingsley (unica star del cast, come già ne Il Pianista: ed è un’altra scelta arguta) gigioneggia nel ruolo di Fagin, ma era inevitabile: il suo personaggio era poco più di un’icona del male già nella descrizione dickensiana. Anzi, è proprio attorno alla sua figura, manifestamente la più potente del romanzo, che Polanski sceneggiatore si distacca di più dallo scrittore. E’ evidente il tentativo compiuto per “regalargli” lati positivi, spingendosi verso una progressiva ”umanizzazione” del vecchio manigoldo: del resto tra i difetti maggiori di Dickens c’è quello di caratterizzare i suoi personaggi in maniera eccessivamente manichea (soprattutto nei primi romanzi, e Oliver Twist fu il suo secondo). Diventa quindi difficile stabilire dove comincino le pecche ascrivibili a Dickens e dove quelle di Polanski, a cui comunque va riconosciuto l’intelligente tentativo di trascendere quei difetti, stralciando (anche qui quasi con compiacimento sadico) tutte le parti in cui Oliver trovava la felicità accanto a tanti personaggi stucchevoli, di cui nel film non v’è traccia: così facendo però impoverisce notevolmente la trama.
Unica tra le tante insidie scampate egregiamente da Polanski riguarda la presunta delusione che attenderebbe invariabilmente il lettore-spettatore a causa del suo immaginario tradito, dato che esso può discostarsi anche notevolmente dalla visione del regista di cinema (eppure, anche qui: è un pregio o piuttosto un difetto?)
La strepitosa messa in scena è ordita da abilissimo direttore d’orchestra, ma è l’intera ricostruzione d’ambiente ad apparire senza precedenti: tutta una serie di tableaux vivants animati in maniera sorprendente, sfilano sotto i nostri occhi ammirati. Le scene di massa mozzano il fiato, eppure gli interni caravaggeschi quasi le superano. Scenografie, costumi, ma soprattutto la fotografia dell’abilissimo Pawel Edelman (già collaboratore di Polanski per Il Pianista) lasciano davvero il segno e meriterebbero l’Oscar. Tuttavia la grande sfida di Polanski si conclude in qualcosa che assomiglia troppo a un grandioso esercizio di stile, portato a termine con maestria e tuttavia, troppo arido per poter suscitare una reale partecipazione agli eventi raccontati.
Un film pensato per i bambini (“volevo fare un film per giovani dai 9 ai 99 anni”), ma che nell’era di Harry Potter rischia davvero di non trovare un suo pubblico.

(Ottobre 2005)

Regia: Roman Polanski; Interpreti: Ben Kingsley, Barney Clark, Harry Eden, Jamie Foreman, Leanne Rowe, Ian McNeice, sir Edward Hardwicke; Sceneggiatura: Ronald Harwood, basata sul romanzo di Charles Dickens; Produttori: Robert Benmussa, Alain Sarde, and Roman Polanski; Produttori Esecutivi: Timothy Burrill and Petr Moravec; Direttore della Fotografia: Pawel Edelman Scenografia: Allan Starski; Montaggio: Herve de Luze; Costumi: Anna Sheppard; Sito originale

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