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Omaggio a Pablito, un italiano vero

Pubblicato il 12 dicembre 2020 da Giammario Di Risio


Omaggio a Pablito, un italiano vero

Lo sguardo fisso sull’obiettivo, la leggerezza e il viso smunto, con il volto pallido e quella dolce sagoma mingherlina: così Paolo Rossi si presenta all’immaginario collettivo, con quel numero 20 mundial che lo consegna alla storia. Fato vuole che quello stesso numero lo porti via agli affetti più cari e ai tanti tifosi, italiani e di tutto il mondo, che hanno amato il suo calcio e la sua persona.

Un ragazzo di provincia Paolo Rossi, che fa soffrire la povera mamma quando, appena sedicenne, lascia casa per rincorrere il suo sogno alla Juventus. Siamo ad inizio anni Settanta, l’Italia è una polveriera: nelle grandi città, come Torino, i quartieri sono blocchi di frontiera ideologica, a macchia di leopardo e le istituzioni vacillano sotto i colpi del terrorismo, dei servizi deviati risentendo inevitabilmente della tensione opaca da Guerra Fredda. Mentre Autonomia Operaia e Movimento Sociale si danno battaglia nel far west urbano e Mario Moretti potenzia la struttura logistica delle BR in vista del sequestro Moro, il ragazzo di provincia, dai sedici ai diciotto anni, subisce tre operazioni al menisco che lo conducono in uno stato di profonda disperazione. La Juventus lo gira poi in prestito al Como, dove non gioca e vede allontanarsi il sogno di sfondare nel calcio. Il nostro però, non ancora Pablito, è un ragazzo tenace e sceglie di ripartire dalla Serie B, dal Lanerossi Vicenza. Qui finalmente inizia a far ammattire i difensori, segnando montagne di goal portando la squadra, il successivo anno, a sfiorare lo scudetto. L’istinto del goal del ragazzo fa innamorare un adolescente Roberto Baggio, che scappa in motorino dalla sua Caldogno per ammirare il suo idolo. Tra i due futuri palloni d’oro si creerà una forte connessione emotiva, che non si spezzerà mai. Rossi è sul tetto d’Italia, non ancora del mondo, e con la sua faccia pulita diventa anche oggetto del desiderio del mercato pubblicitario, che lo prende sotto la propria ala a suon di milioni e contratti. La sua valutazione calcistica schizza a cinque miliardi di vecchie lire e nulla sembrerebbe ostacolare un percorso ascensionale ben definito. A strappare sogni e progetti ci pensa la corruzione del calcio, un cancro che da sempre avvolge il mondo pallonaro italiano, così che Rossi viene giustiziato nell’affaire calcio-scommesse e si prende due anni di squalifica. Il ragazzo di provincia è ora un corrotto, un atleta il cui orizzonte etico frana sotto i colpi dei media, dell’opinione pubblica e di quel pallone, campo da calcio che si allontana. Solo la storia e il tempo allevieranno quel momento di forte disperazione e, come spesso accade nella parabola dei grandi, il più e meno diventano cifre stilistiche di un percorso ad ostacoli che fa delle proprie cicatrici la forza per andare avanti. In questo Rossi incarna la natura affascinante, complicata e drammatica, del modo di fare italiano: picchi enormi, nell’arte e nel modo di osservare e mangiare il mondo, e fragorose frane, in termini di scelte politiche o di giustizia sociale; il tutto entra nel versante positivo quando, nonostante i problemi, i sotterfugi, i corporativismi, i drammi e il cinismo, qualsiasi tipologia di pena viene a espiarsi, cattolicamente parlando, tanto da poter ripartire a testa alta per nuovi obiettivi e con una maggiore forza emotiva. Rossi riparte e, Roberto Pruzzo a parte, fa gioire gli italiani e viene spinto sul tetto del mondo grazie alle sue capacità e alla fiducia di Enzo Bearzot, parliamo di una vittoria mondiale che tutti quanti conosciamo e che fa parte ormai del nostro dna collettivo. Rossi diventa Pablito, ogni pallone che tocca lo butta in rete ma, mentre Schillaci si fermerà al terzo posto nel Novanta, lui fa vincere l’Italia, apre di fatto agli anni Ottanta con la carta d’identità del vincitore. Nel meccanismo quindi ritorna prepotente la faccia pulita, con la colpa espiata e una vittoria che sa di riscatto sociale per un popolo pieno di problemi e ansie. L’Italia degli anni Ottanta rafforzerà la sua posizione geopolitica e continuerà a essere arrogante e malinconica, lamentosa e geniale, insofferente e tendente al perdono. Sul grande schermo e a cinema saranno gli anni di Troisi e Verdone, delle musiche di Pino Daniele e Mia Martini e degli show di Arbore, Carrà e Baudo. Di lì a poco arriverà il tycoon Berlusconi e si apriranno le frontiere reaganiane fatte di consumismo e solipsismo cinico fotografato perfettamente da trasmissioni come Drive in. Ma Rossi appartiene, strutturalmente parlando, alla fase precedente, ad un’Italia maggiormente radicata nei valori della Ricostruzione e del boom economico, da qui la sua timidezza, il suo essere sempre garbato e gentile, affamato di successi ma anche capace di vivere le luci della ribalta, anche successivamente quando sarà opinionista tv, in modo discreto. La sua carriera calcistica durerà poco, una decina di anni, e anche in questo siamo totalmente agli antipodi rispetto ai cyborg pallonari di oggi, programmati per vincere e consumare il prodotto calcio su base ventennale, a colpi di pallone e di foto instagrammabili. Non è mai buon costume criticare il presente andando a trovare tutto il positivo nel passato, soprattutto quando quel passato ha delle forti ed evidenti cicatrici. Con Pablito però il discorso cambia, parliamo di una persona con l’animo gentile, seria e degna, che ha fatto il suo lavoro onestamente e quando ha fatto degli errori ha pagato andando poi a guadagnarsi tutto con gli occhi vispi e l’istinto famelico. Un ragazzo di provincia, che ci ha lasciato troppo presto e che diventa lieto documento storico ed emotivo da raccontare alle giovani generazioni.


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