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Omen - Il presagio

Pubblicato il 6 giugno 2006 da Alessandro Izzi


Omen - Il presagio

Nel realizzare il remake di Omen, pregevole pellicola di Richard Donner degli anni ’70, il giovane regista John Moore sembra cercare ovunque appigli extracinematografici. Spaventato dalle prospettive del buio della sala, poco propenso a muoversi nel vuoto apparente di una narrazione astratta che debba bastare a se stessa, l’autore ricorre spesso al contingente, al mondo “vero” e al "qui fuori" per aumentare la carica inquietante e torbida della storia che va raccontando.
Già la data di uscita del film, quel sei giugno 2006 (un martedì, contro ogni convenzione), nel suo ricercare quella congestione di cifre che replichi il marchio associato all’anticristo e al male è un tentativo di sfruttare la realtà per creare l’illusione di un contatto ideale tra il pubblico in sala e la vicenda narrata. Un tentativo, quasi, di sfondare, sia pure per allusioni e brevi momenti, quella quarta parete brechtiana che, al cinema, ha sempre l’impenetrabilità dolente di una vetrata antiproiettile.
Ma il discorso non si ferma qui, Moore si muove, anzi, nella contemporaneità su più fronti e a più livelli. Senza alcun timore del ridicolo, ma anche con la coscienza sporca di chi sa di dover trasformare anche le tragedie più vicine in materia di spettacolo, egli utilizza gli eventi più traumatici della nostra storia recente per creare, nella mente dello spettatore, l’impressione che la storia raccontata nel film abbia una plausibilità ulteriore.
Si viene, così, a creare una continuità credibile (anche se spesso fastidiosa) tra il mondo della pellicola e la realtà dello spettatore, un ponte di mutui ricambi che dovrebbe, nelle intenzioni degli autori, mettere in discussione la posizione di assoluta intoccabilità del pubblico in sala scuotendone alla base l’unica certezza che mai dovrebbe essere messa in discussione durante la visione di un horror: di essere al cinema per vedere niente più che un "film".
Sicché, nelle pieghe incerte della sceneggiatura, eventi veri ed eventi falsi si accavallano e finiscono per reinterpretarsi reciprocamente. Il crollo delle Torri gemelle si trasforma nelle montagne che cadono all’apertura di uno dei sette sigilli dell’Apocalisse mentre lo tsunami, il cui ricordo è ancora troppo recente per non suscitare immediata empatia, diventa un ennesimo segno, per chi lo sappia interpretare, dell’avvicinarsi dell’anticristo.
Ma questi tentativi interessanti di rinverdire i fasti di un cinema horror fatalmente compromesso con il contingente fino ad incarnarsi come metafore politiche ed esistenziali della contemporaneità, resta per lo più lettera morta all’interno di una pellicola che non conosce davvero il senso di una progressione drammatica profonda.
Lontano dagli occhi, ma non dal pensiero, di un Papa troppo somigliante al vecchio Giovanni Paolo II per non destare sospetti di agiografia, si assiste, così, all’irresistibile ascesa del bambino predestinato a tanto male e, contemporaneamente, al soccombere, uno dopo l’altro secondo un passo fatalmente legato alle circonvoluzioni della vecchia pellicola di Donner, dei pochi e non sempre puliti suoi oppositori.
Il film avanza per scene isolate, per brevi momenti autonomi di suspence che si incastrano con poco senso di continuità secondo un modello troppo vicino alle peripezie narrative di un horror moderno da mero sobbalzo sulla poltrona.
In un gioco penalizzato qui da noi da un doppiaggio spesso pedestre che smorza ad ogni passo tensione e paura, si perde quella sottile persistenza di inquietudine, tra una dissolvenza e l’altra, che faceva bello il vecchio film. Proprio per questo i personaggi sembrano privati di ogni spessore umano e le loro ansie ed incertezze sembrano un declamato da operetta che giunge incongruo e suona perennemente stonato rispetto a quanto precede o segue.
Eppure il cast prometteva, sulla carta, scintille: dal volto ambiguo e squadrato di Liev Schreiber al parroco satanico di Pete Postlethwaite, fino alla bambinaia di Mia Farrow, giunta appositamente da lidi polanksiani a prendersi cura di un altro Rosemary’s baby. Vale a dire: tanti nomi per poco arrosto.
Ma a funzionare meno di tutti è proprio il bambino che non ha quell’angelica malvagità che il ruolo imporrebbe neanche nella scena in cui si insinua nei pensieri di un malcapitato poliziotto di guardia, in ospedale, alla stanza della madre.
Quel che resta, alla fine, è solo un film che spaventa poco e che dà, qua e là, l’impressione di essere stato girato in fretta per rispettare la sua scadenza improrogabile.

(Omen); Regia: John Mooore; sceneggiatura: David Seltzer; fotografia: Jonathan Sela; montaggio: Dan Zimmerman; musica: Marco Beltrami; interpreti: Liev Schreiber (Robert Thorn), Seamus Davey-Fitzpatrick (Damien Thorn), Julia Stiles (Katherine Thorn), Mia Farrow (Mrs. Baylock), David Thewlis (Jennings), Michael Gambon (Carl Bugenhagen), Pete Postlethwaite (Padre Brennan), Joe Towne; produzione: John Moore, Glenn Williamson; distribuzione: 20th Century Fox; origine: U.S.A., 2006; web info: Sito ufficiale

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