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Open water

Pubblicato il 18 agosto 2004 da Alessandro Izzi
VOTO:


Open water

È davvero un peccato che la miope distribuzione del film (aiutata, ad onor del vero, da qualche non meno miope recensione della stampa così detta specializzata) abbia lanciato sul mercato Open Water come un qualsiasi horror marittimo da inserirsi in quel sottofilone che è lo shark movie. Un peccato perché si tratta di una pista assolutamente fuorviante che produce, nello spettatore che ha pagato il biglietto, delle aspettative che non possono che essere disattese da una pellicola, come quella di cui stiamo parlando, che si modella con straordinaria originalità su un meccanismo narrativo ed attanziale che è l’esatta negazione dell’horror. L’horror, infatti, per essere considerato tale, deve affondare le proprie radici prima di tutto nel fertile terreno del Mito. È un genere, insomma, che basa tutta la propria efficacia nell’esercizio di una retorica precisa che si nutre prevalentemente delle rimozioni inconsce e dei complessi di colpa dell’uomo contemporaneo. E la sua azione deve essere orientata nella logica di una catarsi positiva che oggettivizza il sentimento indefinito di una paura interiore trasformandolo, almeno sulla superficie dello schermo, in qualcosa di tangibile e riconoscibile: l’abnorme, l’atroce, il Mostro. Se proviamo a considerare Open Water (che racconta la storia di due sub abbandonati per caso nell’oceano) come un horror, allora le domande senza soddisfacente risposta cominciano a moltiplicarsi in maniera incontrollata. E questo perché, come accennavamo prima, il film disattende tutte le classiche aspettative che il genere si porta dietro. Tanto per cominciare non c’è azione dal momento che l’unica cosa che i sue sventurati protagonisti della pellicola possono fare è solo aspettare che qualcosa succeda. Manca anche il classico meccanismo narrativo della fuga e dell’inseguimento perché, abbandonati come sono nella vastità dell’oceano, i due poveri sub non possono trovare nessuno di quei ripari provvisori (e spesso illusori) che sono tipici della retorica del genere. Di più: mancando ogni coordinata spaziale riconoscibile, l’oceano perde ogni possibile connotazione di spazio agibile. Poiché il “dove” della pellicola si allarga fino a diventare un assoluto quasi metafisico finisce per mancare, tanto per lo spettatore quanto per i personaggi, qualsiasi punto di riferimento, qualsiasi direzione da prendere ed ogni azione annega nell’immensità del nulla e del tutto. Ma soprattutto manca il mostro, la figura soprannaturale con cui devono, alla fine, vedersela i due protagonisti della pellicola. Certo ci sono gli squali, ma essi sono appunto “gli” squali e non “lo” Squalo. Pesci, insomma, e non una riconoscibile, ma astratta incarnazione del male implicito in ciascuno di noi. Aiutato dalla carica documentaria della ripresa digitale, il regista compone, quindi, sotto il nostro sguardo ammirato, un vero e proprio pamphlet naturalistico che rifiuta ogni facile concessione spettacolare. E, superata la compartecipazione per il destino dei poveri personaggi del film (le cui psicologie sono restituite con acuto senso antropologico: dall’iniziale paura, al successivo comprensibile conflitto, fino alla resa finale), quello che resta è un profondo senso di sgomento per l’immensità del mondo e la nostra conseguente infinita piccolezza. Essere uomini è, in fondo, poco più che essere pesci. Coloro che, all’inizio del film, cacciavano zanzare finiscono per ridursi, alla fine, a cibo per squali. Ed ecco che, quindi, pur nell’orrore, comincia a farsi strada un inaspettato sentimento panteistico che colora le immagini di un incredibile senso sacrale che si palesa soprattutto in quei momenti in cui le immagini vengono commentate dal canto di cori vocali persi nella distanza del tempo e dello spazio. Qui nel breve e geniale epilogo solo in parte rovinato dalla concessione al genere con le scene dei tentativi di soccorso agli sventurati personaggi, prendono corpo le vere figure del Mito di questa pellicola senza dubbio importante: una Pietà, dapprima, con la donna/madre che depone il corpo del figlio/amante consegnandolo ai flutti e ai pesci; una Maternità rovesciata, alla fine, quando la donna, accettato il suo fato, si immerge in quell’immenso utero che, in fondo, è il mare.

(Open Water); regia: Chris Kentis; sceneggiatura: Chris Kentis; fotografia: Chris Kentis, Laura Lau; montaggio: Chris Kentis; interpreti: Blanchard Ryan, Daniel Travis, Saul Stein, Estelle Lau, Michael E. Williamson, Christina Zennaro, Jon Charles; produzione: Laura Lau; distribuzione: Eagle Pictures; origine: USA, 2003

[agosto 2004]

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