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Operazione Valchiria

Pubblicato il 1 febbraio 2009 da Alessandro Izzi
VOTO:


Operazione Valchiria

Corre veloce, il treno del racconto. Non ammette stasi, non accetta il compromesso di rallentare in prossimità di quelle stazioni dove sa già che non si fermerà. Avanza irreggimentando la sua marcia nel solco noto dei binari, con la stesso limpido ritmo di un esercito in marcia veloce: ogni movimento di ogni singola unità subordinato all’armonia dell’intera macchina da guerra.
È così l’ultima fatica di Bryan Singer: un concentrato di movimento narrativo, un inesausto “tendere a” fondato sul paradosso insolubile di una suspence impossibile dal momento che la fine di tutto è tristemente nota. Ed è proprio a fronte dell’estrema prevedibilità dell’epilogo che probabilmente ha preso corpo l’idea del perpetuum mobile imposto alla macchina da presa. La forma (imprevedibile) sopravanza le intenzioni note e si impone allo sguardo come una chimera insondabile. Se la fine è nota, note non sono le traiettorie che hanno condotto a quella conclusione. Così la camera singeriana si svincola da corpi e volti, si stacca dal contingente e prende il volo in un estremo anelito che afferra la pancia dello spettatore e stordisce la sua mente. Vola la macchina da presa, come un X-man dotato dello strano potere di far rivivere la storia passata, trasformandola in fumetto. Non si contano le panoramiche, i dolly, le riprese aeree che restituiscono lo splendore della foresta nera entro cui corre una macchina d’epoca. Lo sguardo del regista non si posa mai quel tanto che basta per dare il senso di un sentimento che sboccia o di un’idea che si palesa. Ogni elemento messo in scena tende naturalmente all’epilogo come una tonalità, in sinfonia, tende al ricongiungimento con la tonica. Tutto corre al punto che alle varie facili critiche sulla mancata adesione alla realtà dei personaggi storici o all’accusa di eccessiva esemplificazione dei contenuti (tutte legittime, ma tutte sostanzialmente sbagliate) vien da rispondere con il noto adagio galileiano: “Eppur si muove!”.
Operazione Valchiria è proprio come un paesaggio osservato dal finestrino di un treno in corsa: di lontano c’è l’orizzonte quasi immobile rispetto allo sguardo (la Storia), più da presso, in primo piano, c’è la folla di dettagli che scorrono via senza che l’occhio faccia in tempo a discernere i particolari o a mettere a fuoco gli oggetti (il Racconto). E come spettatore te lo devi guardare così, il film, nella convinzione che ogni cosa vada per sempre sottomessa all’inerzia del moto.
La forma, però, per quanto strano possa apparire, è subordinata alla dinamica del messaggio. Operazione Valchiria parla di una missione impossibile che doveva pur essere tentata. Mette in scena un gruppo di personaggi che, per opportunismo, per eroismo o per semplice coerenza decidono di uccidere Hitler e si imbarcano in un suicidio collettivo. È la storia di decisioni prese che vengono poi trascinate dal turbine degli eventi di una Storia definitivamente più grande di loro. Il loro muoversi è pari al movimento mai esausto della macchina da presa. Singer dona loro la bidimensionalità contraddetta dei suoi X-men. Sono strisce di fumetto dibattute tra eccezionalità e desiderio di normalità. Vivono nella definizione di se stessi sapendo che questa è una condanna che porta dritti davanti al plotone di esecuzione. Eppure non possono far altro che restare se stessi, in ogni caso e senza un perché. La loro decisione l’hanno presa, ma ne sono anche e soprattutto vittime. Come eroi della tragedia greca si trovano ad aver imposto dall’alto un destino (che è come il superpotere dei mutanti) e la loro unica decisione è l’energia che impiegheranno per portarlo a compimento. Il loro eroismo non sta nel prendere la giusta decisione tra due opzioni possibili, ma nel decidere titanicamente di firmare la propria stessa condanna a morte.
Basti vedere il prologo per rendersene conto: la scena in cui Tom Cruise perde il suo occhio e prende atto che non può più esimersi dal combattere. Una perdita fisica che si riempie di un senso ulteriore; un incidente che si fa consapevolezza di una missione. Esattamente come nel prologo del primo X-men quando Magneto, costretto in un campo di concentramento, scopre il suo dominio sul metallo. La comunanza tra i due diversi incipit non sta solo nella vicinanza del periodo storico, ma nella presa di coscienza di una diversità che si fa incomlabile, insuperabile. Magneto perde l’innocenza del pensarsi uguale agli altri (siano pure compagni di sventura che cominciano una marcia verso i forni) e assume sulle proprie spalle la tragedia di un superpotere. Tom Cruise perde l’occhio e la mano e assume le fattezze di un mutante il cui unico superpotere è la forza di volontà, ma la cui missione è non meno impossibile. Da bravo supereroe partorito dalla mente di un regista che non ammette soluzioni tanto comode, il personaggio si trova a dover combattere usando le stesse armi del male (un Hitler incredibilmente untuoso e borbottante). Prende un’operazione militare pensata per perpetuare il Reich in caso di morte del leader e lo ribalta nel suo contrario. Il suo superpotere lo incanala nella capacità di entrare nella mente del nemico. Capisce, da par suo la mentalità, di Wagner e la piega a nuovi fini. Non è poi tanto migliore del gerarca che vuole sostituire: muore celebrando eroicamente la sua patria, ma i suoi figlioletti lo accoglievano a casa simulando un duello di spade con tanto di colonna sonora (è la Cavalcata delle Valchirie). Neanche il quadretto domestico si salva dalle logiche della propaganda nazista: i suoi bambini sono figli di un ufficiale del Reich e ne sono fieri. Forse nelle loro stanze hanno appesi i quadrucci della gioventù hitleriana.
Il film di Singer è tanto movimentato nel racconto quanto ambiguo nel tratteggio dei dettagli. È vero che non c’è straccio di definizione di psicologie e di caratteri, ma lo è anche perché racconta di un momento in cui le decisioni si prendono perché si deve e non perché si vuole. Il suo eroe non è uno Schindler che matura nel tempo, ma un soldato che, in campo di battaglia, sa che deve affidarsi all’istinto.
E in questa differenza si misurano i pregi e i difetti di una pellicola non risolta, ma densa. Un punto importante di una poetica che dal fumetto torna alla storia ed ora deve necessariamente guardarsi intorno in cerca di nuove, significative direzioni.


CAST & CREDITS

(Valkyrie); Regia: Bryan Singer; sceneggiatura: Christopher McQuarrie, Nathan Alexander; fotografia: Newton Thomas Sigel; montaggio e musica: John Ottman; interpreti: Tom Cruise (Claus von Stauffenberg), Kenneth Branagh (Henning von Tresckow), Bill Nighy (Friedrich Olbricht), Tom Wilkinson (Friedrich Fromm), Carice van Houten (Nina von Stauffenberg), Thomas Kretschmann (Otto Ernst Remer), Terence Stamp (Ludwig Beck), Julian Morris; produzione: United Artists, Achte Babelsberg Film, Bad Hat Harry Productions; distribuzione 01distribuzione; origine: USA, 2009; durata: 120’; webinfo: Sito ufficiale


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