Oray - Perspektive deutsches Kino
Fra i moltissimi premi assegnati a Berlino dalle varie giurie, spicca senz’altro il premio per la migliore opera prima, anche quest’anno come gli anni scorsi si tratta di un riconoscimento che mette in competizione film provenienti da sezioni diverse. Stavolta il premio è andato a un film proveniente dalla sezione “Perspektive deutsches Kino”, dedicata esclusivamente al cinema tedesco, una sezione creata da Dieter Kosslick all’inizio del suo mandato nel 2002. Vediamo se Carlo Chatrian la manterrà.
Il film s’intitola Oray che è anche il nome del protagonista, uno “zingaro macedone d’origine ottomana”, più semplicemente un turco di seconda generazione che vive in Germania, nella non particolarmente celebre città di Hagen, a un’ottantina di chilometri da Colonia. Facciamo immediatamente la conoscenza di Oray, in una sequenza in cui fa quello che gli riesce meglio, ossia il predicatore, il motivatore. Di fronte a un gruppo di suoi simili, che vedremo solo in un secondo momento, quando questa medesima scena, verso metà del film, ci verrà proposta una seconda volta, pronuncia un apodittico ed esaltato elogio dell’Islam, senza il quale la vita non ha senso, la morte non ha senso. Con un passato da scassinatore e un ampio soggiorno in prigione Oray, grazie alla fede, grazie all’Islam, ha saputo redimersi, Oray è dunque un convertito e – come molti convertiti – tende inevitabilmente a fare proselitismo.
La scena successiva è quella intorno a cui ruota l’intero film, ossia un banalissimo screzio amoroso fra Oray e la bella moglie Burcu che degenera in una assurda escalation; il protagonista, con una evidente tendenza alla collera (questo tratto del carattere l’Islam non lo ha modificato), ma anche esasperato per la cocciutaggine della moglie oltreché per il fatto che a un certo punto la donna neanche più gli risponde al telefono, in preda all’ira, appunto, pronuncia, seppur soltanto nella segreteria telefonica, per ben tre volte la parola talâq. Ora, chi non è espertissimo di Islam non ha la più pallida idea di che cosa significhi. Talâq significa di fatto ripudio, se la parola viene pronunciata tre volte, rigorosamente dal marito nei confronti della moglie (il contrario non si dà proprio), le conseguenze devono considerarsi definitive: la coppia si dovrà separare, non ci sono vie d’uscita. Se invece, come il protagonista mentendo dichiara, la parola viene pronunciata una sola volta, la maggioranza degli interpreti della legge islamica prevede una separazione di tre mesi fra moglie e marito. La maggioranza, appunto, ma non la totalità. Un affascinante aspetto del film, diciamo così di natura giuridico-confessionale, è proprio questo: una certa anarchia del diritto islamico, le diverse possibili interpretazioni della stessa fattispecie, gli islamici non hanno un Vaticano. Oray lascia Hagen per trasferirsi a Colonia, cerca di rifarsi una vita, quanto meno per il periodo di separazione, si dedica a vari lavoretti, frequenta la moschea (è qui che torna a pronunciare lo statement dell’inizio, è qui che vediamo il controcampo con i suoi interlocutori), entra in conflitto anche con l’imam, dotato di molto minor carisma rispetto a lui. Quando ricompare la moglie e i due scoprono (ma già lo sapevano) quanto ancora si amano, ecco che l’apparentemente saldissimo Oray precipita in un conflitto insormontabile fra amore e dovere, soprattutto quando finalmente ammette a sé stesso, che la fatidica parola l’ha pronunciata non una ma tre volte. A questa vicenda se ne intrecciano anche altre legate a personaggi minori, tutti però collocati nell’ambiente islamico tedesco, sono tutte dinamiche interne a quel milieu, un conflitto interculturale col paese dove abitano non c’è proprio. La sceneggiatura del film è molto buona, la rappresentazione della comunità islamica è molto convincente, anche con quel suo continuo shifting fra lingua tedesca e lingua turca, nei film girati da registi turco-tedeschi è peraltro quasi sempre così, anche perché è così nella realtà; si apprezza la rappresentazione realistica delle relazioni maschili e del senso di appartenenza che la fede può dare, ma per contrasto anche il condizionamento provocato dalla religione (il super-io religioso). Colpisce positivamente anche il fatto che per una volta non si parli di terrorismo, di islamici radicalizzati, o anche – fatta salva l’univocità della talâq - di oppressione contro le donne, di donne col velo, Burcu e le altre donne sembrano donne molto disinvolte ed emancipate. Per essere il saggio conclusivo – presso la Kunsthochschule der Medien di Colonia – da parte del regista (e sceneggiatore) Mehmet Akif Büyükatalay (nato nel 1987), si tratta di un film decisamente maturo.
(Oray); Regia: Mehmet Akif Büyükatalay; sceneggiatura: Mehmet Akif Büyükatalay; fotografia: Christian Kochmann; montaggio: Denys Darahan; interpreti: Zejhun Demirov (Oray), Deniz Orta (Burcu), Cem Göktaş (Bilal), Mikael Bajrami (Ebu Bekir), produzione: filmfaust Produktion, Colonia, Pluto Film, Berlino origine: Germania 2019; durata: 100’. Proposta: 4 stelle.