Ostia FilmFest - Look both ways - Amori e disastri

Presentato in anteprima nazionale nel corso del primo Ostia Film Festival, Look both ways approda nella nostra penisola dopo aver attraversato il mondo intero e aver riscosso ampi consensi da parte della critica e dell’opinione pubblica internazionale. Giudizi favorevoli che, dal 2005 ad oggi, si sono concretizzati in numerosi premi vinti nei festival di tutto il mondo (Toronto, Rotterdam, Mar de la plata, Motovun) e in una distribuzione capillare, economicamente molto redditizia per le casse di un film dal così esiguo costo.
Diretto dall’esordiente regista australiana Sarah Watt, Look both ways è in effetti un film che rimane scolpito nella mente dello spettatore per la sua raffinata compostezza e per l’originalità del linguaggio che adotta. La sua storia non ha le sembianze di qualcosa di classico, ma percorre territori sinora inesplorati dalla cinematografia, anche quella recente. Il suo è un racconto che intreccia principalmente storie diverse di differenti personalità umane, tutte circoscritte nello spazio limitato di una cittadina australiana indefinita e tutte legate dalla incombente tragicità della morte. Quest’ultima si erge a tema portante dell’intera pellicola in quanto vive nei pensieri, nelle preoccupazioni, nel destino di ogni singolo personaggio indagato, sino a diventare vera e propria ossessione per ciascuno di loro. A cominciare dai suoi due protagonisti principali, Nick e Mary Lee, il cui legame con la morte è molto più profondo di quanto possa sembrare negli istanti iniziali. Nick infatti è un fotografo reporter di un giornale locale che dopo aver trascorso gran parte della propria vita in giro per il mondo a fotografare scene drammatiche di catastrofi umane, scopre all’improvviso di aver involontariamente coltivato dentro di sé la morte attraverso l’evoluzione di un cancro ai testicoli ormai incontrollabile; Mary Lee invece è un’artista anomala e stravagante, una pittrice che ama dipingere paesaggi marini affascinanti all’interno dei quali, però, è solita introdurre l’elemento della tragedia come filo conduttore del proprio linguaggio. Se la convivenza con la pressione della morte diventa per Nick un trauma che lo costringe a ricordare gli ultimi momenti della malattia del padre ormai morto e lo porta a vedere ovunque attorno a se riferimenti continui alla distruzione fisica dell’uomo, per Mary Lee invece l’influsso della morte sulla sua psiche si manifesta in maniera molto più intima e personale, attraverso continue visioni di tragedie (edulcorate da una animazione che richiama il suo stile di pittura) che squarciano la sua serenità e vanno ad influenzare il suo pessimismo artistico. L’incontro tra i due avviene nelle fasi iniziali del film per un motivo a dir poco incredibile. Lei è testimone di un incidente mortale avvenuto sui binari della linea ferroviaria mentre lui è sul posto per fotografare scatti interessanti da consegnare al proprio giornale.
Da questo momento in poi, il film parte con le sue innumerevoli direzioni narrative. Ad affiancare infatti la traiettoria principale incentrata sulla collisione tra Nick e Mary Lee intervengono molte altre storie dalla consistenza minore ma dall’eguale tasso di tragicità. Storie parallele, vicine, storie che si toccano l’una con l’altra scambiandosi dosi di drammaticità da riversare nel complesso sistema caduco messo in scena consapevolmente dal film. Vicende stupende per la loro semplicità e delicatezza, tutte giocate sull’ineluttabilità del destino e sulla fragilità della vita umana; come quella ad esempio del conducente del treno sotto cui avviene l’incidente iniziale, o quella riguardante un collega giornalista di Nick, anch’egli presente sul luogo della tragedia per portare avanti la sua inchiesta sulle morti per suicidio e anch’egli stremato (quasi fino al suicidio appunto) da una vita passata tra le difficoltà di una famiglia allargata. E così via, le traiettorie continuano a sovrapporsi in Look both ways, fino a raggiungere un equilibrio tenuto insieme dalla tragicità dilagante, sempre più ossessiva e sempre più invasiva. Il film mentre scorre e si dirige verso il suo svolgimento naturale trasmette allo spettatore la sua lenta agonia attraverso sovrapposizioni di stili diversi che nella collisione provocano una forma molto suggestiva, capace cioè di essere classica nel momento in cui scruta i suoi personaggi e narra le loro vicende e molto anticonformista quando spezza la continuità del film con degli sprazzi di visioni, rappresentazioni e piccole clip dedicate alla consistenza della morte. Anche da un punto di vista emotivo il film sembra attestarsi su binari leggermente differenti dalla normalità, il suo è un ritmo molto compassato, mentale, quasi sempre in controtendenza con l’ansia che la morte dovrebbe normalmente provocare (anche le clip precedentemente nominate, seppur martellanti hanno sempre un elemento di straniamento dalla realtà). La sua fonte d’ispirazione sembra provenire in tal senso dal cinema americano indipendente e più precisamente dal Noah Baumbach di Margot at the wedding o, più vagamente, da Magnolia di Paul Thomas Anderson. Come queste complesse opere, Look both ways segue per larghi tratti un percorso di amara rassegnazione che non lascia spazio a rosee previsioni, il suo discorso descrive un pessimismo talmente radicato nell’animo umano da apparire quasi come un escrescenza naturale della condizione esistenziale. I personaggi difficilmente si lasciano andare a esplosioni di contentezza, fanno in modo di contenere visibilmente anche il loro stato di angoscia interiore e nemmeno un sentimento come l’amore, occasionalmente scoccato tra Nick e Mary Lee, sembra poter alleviare l’acquiescenza descritta nel film.
Attenzione, però: mai mettere limiti alla provvidenza, soprattutto in un cinema come quello della Watt che, sin da questa sua prima opera, si dimostra talmente intraprendente da riuscire a mutare radicalmente, nei modi giusti e senza risultare patetico, il destino della sua creatura. L’epilogo di questo affresco così intenso, brillante e delicato capovolge infatti il punto di vista mostrato in tutto il film, trasformando in pochissimi secondi l’inesorabile discesa verso il baratro in una vera e propria rinascita, in un forte senso di speranza per l’umanità. Un finale che riconcilia le amarezze della prima parte e che, inserito in un contesto commovente, restituisce libertà e spensieratezza alle diverse psicologie raccontate nell’opera. Il film di Sarah Watt è insomma un gioiello a tutti gli effetti, un film compiuto, emozionante, ben calibrato, mai banale nel saper affrontare in maniera incisiva il tema delicato del trapasso. A tal proposito, Look both ways potrebbe rappresentare per la sua perlustrazione sul tema della morte ed i ragionamenti ad essa legati (ma anche in parte per lo stile adoperato), ciò che, nel recente passato ,Juno di Jason Reitman ha rappresentato per l’altrettanto delicato tema della vita. Un percorso comune in cui entrambi gli autori affrontano la propria questione senza indugi, senza alcun timore di cadere nel ridicolo e mettendo in mostra soprattutto un piglio, un coraggio ed una intelligenza senza precedenti.
(Look both ways) Regia: Sarah Watt; soggetto e sceneggiatura: Sarah Watt; fotografia: Ray Argall; montaggio: Denise Haratzis; musiche: Amanda Brown; scenografia: Toni Forsyth; costumi: Edie Kurzer; interpreti: Justine Clarke, William McInnes, Anthony Hayes, Lisa Flanagan, Andrew S. Gilbert, Maggie Dence, Edwin Hodgeman; produzione: Hibiscus Films; distribuzione: Fandango; origine: Aus; durata: 100’; web info: http://movies.juicemedia.com.au/loo....
