PALMA ROSSA A CANNES 06
Strana la vita! Ed ancora più strana sulla Croisette, a conclusione del 59° Festival di Cannes, ad unanime giudizio, una delle edizione più mediocri degli ultimi anni. Ma si sa, i Festival sono come le partite di pesca: quando il pesce in circolazione è poco, le reti rimangono vuote. Cosa che deve essere accaduta, quest’anno, al direttore Thierry Frémaux che ha aperto il suo Concorso con un film pessimo (lo strombazzatissimo Il Codice da Vinci di Ron Howard) e l’ha chiuso con un’opera altrettanto, se pur diversamente, deludente: un folkloristico Transylvania del gitano Tony Gatlif, dove la protagonista Asia Argento è riuscita ad offrire il peggio di se stessa. In questo contesto, discutibile quanto sia il verdetto della Giuria, esso ha comunque il dono della coerenza nell’aver restituito un senso compiuto ad una selezione che si stentava a capire dove volesse andare a parare. Insomma per quanto possa risultare incredibile, sulla carta, per un consesso di giurati guidati da un’esteta come Wong Kar-wai, ad essere premiato a Cannes 2006 è stato proprio il cinema più politicamente impegnato. E chi meglio e con più perseveranza poteva incarnare tale ideale identikit, se non il marxista inglese Ken Loach? Dopo tredici anni di frequentazione cannense si è visto assegnare a sorpresa, “ma all’unanimità”, come è stato ribadito, la Palma d’oro per The wind that shakes the barley (letteralmente “Il vento scuote l’orzo”, il verso di una canzone popolare), la sua polemica (ed antinglese) opera sulla lotta per l’indipendenza irlandese nei primi anni Venti. Scritto come di consueto da Paul Laverty, il film ricorda da vicino il precedente e più efficace Terra e libertà (1995), di cui lascia rimpiangere la freschezza d’ispirazione: certo non aggiunge niente di originale alla filmografia del grande regista inglese ma neanche sfigura rispetto alla media dei restanti lavori in Concorso. Il raddoppio di questo verdetto “politico” e cioè il Gran Prix della Giuria ha destato, invece, più perplessità: già premiato a Cannes nel 1999 per L’Humanité (L’umanità), il francese Bruno Dumont ha accentuato in Flandres il cotè brechtiano del suo cinema, consegnandoci un apologo contro la guerra rarefatto e a tratti efficaci ma che sembra dimenticare le ragioni dell’emozione a scapito di un intellettualismo molto cerebrale.
Oltre alla Sofia Coppola della superba Marie Antoniette (completamente dimenticato dalla Giuria come i contributi italiani), il grande sconfitto di questa edizione di Cannes è risultato Pedro Almodovar, dato alla vigilia e da tutti (compresi noi) come il grande favorito della competizione. Già da una settimana nelle sale italiane, il bel Volver (anch’esso, però, non all’altezza, per chi scrive, di prove precedenti) ha, comunque, vinto il Premio per la sceneggiatura e soprattutto ha ricevuto la Palma per la Migliore interpretazione femminile assegnata collettivamente a tutte le brave attrici del film: Penelope Cruz, Carmen Maura, Blanca Portillo, Yohana Cobo, Lola Duenas e Chus Lampreave. Decisione che si è ripetuta specularmene anche per la Migliore interpretazione maschile dove sono stati premiati i protagonisti di Indigenes (Jamel Debbouze, Roschdy Zem, Sami Bouajila e Samy Naceri) del regista arabo Rachid Bouchareb, dove si rievoca con passione e engagement un’altra pagina dimenticata della Storia del secolo scorso: l’epopea e il tributo di sangue versato dai soldati di colore maghrebini (appunto di “Indigeni” del titolo) che hanno combattuto per la liberazione della Francia durante la seconda guerra mondiale.
Si può discutere su tutto ma non certo sul talento di Alejandro Gonzalez Iñarritu che proprio a Cannes nel 2000 si era rivelato con lo straordinario Amores Perros che a tutt’oggi resta il nostro film preferito. Alla sua terza prova dal biblico titolo di Babel, il filmmaker messicano-hollywoodiano conferma, di sicuro, il suo virtuosismo nell’incastro e nella messa in scena, a scapito, c’è parso, dell’ispirazione e di una certa freddezza di contenuti che stigmatizzano (a tratti, però, con grande efficacia) il proliferare della violenza nel mondo contemporaneo. Giusto quindi il premio per la migliore regia, ma forse per il film sbagliato. Un cenno, infine, all’unica opera prima in Concorso, Red Road, melodramma sulla videosorveglianza dell’inglese Andrea Arnold che con qualche generosità ha ricevuto il Premio della Giuria a conclusione del Palmares.
Se il Concorso, come si accennava, non ha brillato, è vero però che alcuni titoli sono stati forse ingiustamente dimenticati o messi da parte (per lo meno: Richard Linkater, Aki Kaurismäki, Pedro Costa o Israel Adriá Caetano) mentre Le Climats del turco Nuri Bilge Ceylan è stato premiato solo dalla Fipresci e Bamako di Abderrahmane Sisako (nelle “Proiezioni speciali”) - uno dei migliori film in assoluto del Festival - avrebbe potuto benissimo essere promosso in prima divisione. La verità è che il meglio di Cannes 06 è risultato spalmato nelle sezioni collaterali tra la piccola ma combattiva “Semaine de la critique” e la “Quinzaine des Réalisateurs” tornata sotto la direzione di Olivier Père ai fasti di un tempo. Non è un caso che a vincere la prestigiosa “Caméra d’Or” sia stato proprio un film di questa ultima sezione: Fost sau n-a fost?, un’acida e surreale commedia del romeno Corneliu Porumboiu. E ci siamo dimenticati poi il cartellone de “Un Certain Regard”. Ma su questi temi avremo modo presto di ritornarci sopra.