Parenti Terribili
Roma, Teatro Belli – Scritto nel 1938, Parenti terribili è considerata l’opera più compiuta di Jean Cocteau. Dopo testi come l’Orfeo o la Macchina infernale, in cui miti classici vengono riforgiati grazie alla poetica vivida e simbolica dell’autore francese, con quest’opera Cocteau compie un ulteriore passo. Servendosi del dramma borghese, genere a quel tempo tanto in voga, come di un contenitore, vi combina al suo interno una serie di archetipi classici nella rarefazione di un’atmosfera onirica e surreale.
Punto d’incontro tra la tragedia classica e il vaudeville, Parenti Terribili è , dunque, ben altro che un dramma borghese, genere nel quale, ad ogni modo, sembra appartenere. ‘Pittore fedele di una società alla deriva’, come lo stesso Cocteau si definisce nella sua prima prefazione al testo, ci dipinge un fatiscente microcosmo borghese, il cosiddetto ‘carrozzone’. Una realtà descritta con tanta lucidità da risultare grottesca.
Personaggi-simbolo, coperti di vizi e nevorosi tipici di una società in decadenza, si muovono sulla scena, fedele riproduzione di un interno borghese. Essi interagiscono freneticamente, senza, però, che vi sia una reale comunicazione tra loro. I loro dialoghi, sottili ed ambigui, sembrano quasi monologhi che si intrecciano in un tessuto di verità taciute e menzogne ostentate. Ingranaggi inconsapevoli di una macchina destinata all’autodistruzione, proprio in virtù del corretto funzionamento di ogni singola parte. Condizione indispensabile per la nascita di un nuovo ‘ordine’, probabilmente altrettanto malato.
Ma questi personaggi non sono soltanto simboli di una società in decadenza – emblematica Yvonne (Gloria Sapio), con la sua vestaglia sdrucita, piena di buchi di sigaretta e i ‘nervi a pezzi’ . Sotto le loro spoglie intravediamo, più o meno celati, ombre che ci riportano direttamente alla tragedia classica, a cui Cocteau sempre si rivolge.
Ed ecco che allora il tragico amore incestuoso di una madre per un figlio prende vita in un interno borghese di una Francia del secolo scorso, e non più alla corte di Tebe. Ma, ancora, riconosciamo in Yvonne, oltre ad una Giocasta vittima del proprio desiderio incestuoso, anche l’ordine anarchico di una Antigone che si contrappone all’ordine sociale di Leò-Creonte, tra i quali oscilla il candido Michel. I personaggi sono spinti all’estremo con una sorta di esasperazione e di crudeltà, un inferno familiare, soffuso ora di pietà ora di ironia.
Assistendo a questo allestimento presentato dall’Albero Teatro Canzone, per la regia di Adriana Martino, che da sempre dedica particolare attenzione ai grandi classici, si ha la sensazione che sia stato privilegiata più la componente comica, ‘assurda’.
La rappresentazione (sebbene con qualche sbavatura a cui sicuramente si rimedierà col tempo) è incalzante, il ritmo è serrato. Veniamo catturati dell’avvicendarsi delle inondazioni verbali di madre e figlio contrapposti alla laconicità, pungente e ben calibrata di Leò (ben interpretata da Valentina Martino Ghiglia) fino ad arrivare al repentino e crudele ‘ritorno’ all’ordine finale. I personaggi, sia pure incarnati da interpreti notevoli, faticano un po’ a venir fuori in tutta la loro complessità ed ambiguità. Ma il risultato finale è comunque più che apprezzabile.
Autore: Jean Cocteau; Regia: Adriana Martino; Interpreti: Gloria Sapio, Valentina Martino Ghiglia, Felice Leveratto, Giuseppe Morteliti, Claudia Marini; Scene e costumi: Anna Aglietto; Musiche: Benedetto Ghiglia; Produzione: Albero Teatro Canzone.