Parlami d’amore

Nelle interviste che hanno preceduto e poi accompagnato l’uscita di Parlami d’amore abbiamo conosciuto un Muccino candido e un po’ sfrontato. Un neo regista consapevole della sua posizione, difficile per ogni esordio, di fratello d’arte, uno sceneggiatore con alle spalle poco, ma ben gratificato mestiere, ma soprattutto un ragazzo con tanta voglia di dire qualcosa, di dimostrare al mondo e a se stesso di essere qualcosa di più di un volto per il mercato dei giornalini per le teenagers nostrane.
Le dichiarazioni, a metà tra il sincero e il calcolato, ribadivano l’idea di un film costruito con calma furia senza pensare alle reazioni del pubblico, ma risultato di un’urgenza privata: due anni di silenzio dopo la sovraesposizione del successo tutto italiano del primo Manuale d’amore, un lungo periodo di gestazione solitaria (sul divano di Carla Vangelista) per la stesura di un romanzo fiume di cinquecento pagine che ha goduto di un lusinghiero successo di vendite, il rifiuto di contratti milionari che era prima di tutto un calcio ad un’avviata carriera di divo, la voglia di esplorare, come scrittore e come regista, un universo diverso da quello della media borghesia romana frequentato invece dal fratello maggiore.
Soprattutto, tra le varie intervista rilasciate a Ciak, a Vanity Fair e a quant’altro, colpisce il ritorno di un’affermazione paradossale. Silvio Muccino dichiara a chiare lettere che, nel corso della sua ancora breve vita, non è mai stato veramente innamorato. Storie d’amore tante, in verità. Qualcuna anche salutata dai gossip dei tabloid. Ma nessuna veramente “totale”. Per la Storia con la maiuscola, per il momento in cui dire “Ti amo” non significherà più dire “Amami” il tempo arriverà solo dopo la fine della campagna promozionale del film.
Ergo a voler essere cattivi (e un po’ ce ne dispiace perché al Muccino maggiore continuiamo a preferire il Silvio che è senz’altro più sincero, anche se più acerbo) dobbiamo arguirne che a parlarci d’amore, in un film che si appresta ad essere un successo annunciato, è uno che l’amore vero non l’ha ancora mai provato per davvero. Un po’ come per un attore fedele al metodo Stanislawski che, di fronte alla scena forte di un personaggio che piange per la morte della madre, pescando nella memoria dei suoi lutti personali non trova altro dolore che quello provato per la morte prematura del gatto del vicino.
Impossibilitato a cantare l’Amore con la maiuscola per mancanza di esperienza personale (ma chi in fondo lo è?) al giovane regista rampante che non deve aver fatto tesoro della lettera di Rilke ad un giovane poeta, non resta altra soluzione che raccontare tutto ciò che amore non è. E nel farlo si trova costretto a calcare la mano su situazioni che, forse, conosce ancor meno. Parla allora di amore come dipendenza (che è anche quella dei genitori e degli amici di Sasha per la droga e quella del suo personaggio per il gioco d’azzardo), parla dell’amore come cupio dissolvi (è la storia travagliata e spersonalizzante con la giovane Benedetta a sua volta con le spalle fatte pesanti da un passato di violenza e pedofilia) parla dell’amore come rimpianto e senso di colpa (è la storia di Nicole che non riesce, dopo anni, a non sentirsi responsabile della morte del suo Thierry). L’universo mucciniano è un luogo dolente, un inferno raggelato popolato da personaggi che non sono capaci di lasciarsi andare nelle braccia l’uno dell’altro perché troppo provati dai dolori della vita, troppo feriti da un fato ingiusto. La loro è una gara a chi grida più forte il suo dolore, per chi meglio è capace di rinfacciare all’altro la colpa del suo essere solo. E il finale, aperto alla speranza, è anche una dichiarazione che la felicità, il raggio di sole, arriva solo dopo aver sofferto abbastanza, ma anche dopo (e l’intuizione non è da poco) aver imparato che la differenza tra inferno e paradiso non la fa il mondo, ma è una nostra unica e sola responsabilità.
In tutto questo tripudio di drammi esistenziali, dove anche il cane Oliva può dichiarare, abbaiando, la tragedia di essere stato investito (prima) e fatto posta per una mano di poker (poi), si perde, per lo spettatore, ogni cognizione del dolore e della sua dilaniante, utopica profondità. È come se il regista, ma questo era un difetto che già si respirava tra le parole del romanzo rese, però, più leggere dal dipanarsi in tante pagine, non avesse abbastanza fiducia nei suoi personaggi; quasi pensasse, seguendo la logica televisiva del talk show, che solo l’aver tanto sofferto possa davvero rendere interessante, agli altri, qualcuno. E più si amplifica l’esibizione del dolore (resa invadente da una macchina da presa che non riesce a star ferma mai), più si accavallano le voci e le lacrime, più aumenta lo squilibrio dell’attore che ha solo la morte del gatto del vicino per avvicinarsi alla sua parte.
Muccino ha tanta, sincera urgenza di dire qualcosa. Il problema è che l’urgenza sopravanza talmente tanto, nella sua rabbia ancora giovanile, la cosa da dire che quest’ultima perde quasi ogni valore ai suoi come ai nostri occhi.
Certo dobbiamo rimarcare che è bello per una volta, nel nostro cinema, che a parlare di un venticinquenne sia un venticinquenne e non un esordiente di mezza età. E certo dobbiamo ammettere che Parlami d’amore non è un racconto alla Moccia con tanta moda e poco arrosto. Epperò non può non sorprenderci l’impressione, durante una visione che qualche volta si fa irritante e qualche volta colpisce (è bella la scena dell’ultima partita di poker), che ci sia ancora molta strada da fare per gridare al miracolo della nascita di un nuovo autore. Aspettiamo allora il secondo film che, possiamo esserne certi, non tarderà troppo.
(Parlami d’amore); Regia: Silvio Muccino; sceneggiatura: Silvio Muccino, Carla Vangelista; fotografia: Arnaldo Catinari; montaggio: Patrizio Marone; musica: Andrea Guerra; interpreti: Silvio Muccino (Sasha), Aitana Sánchez-Gijón (Nicole), Carolina Crescentini (Benedetta), Geraldine Chaplin (Amelie), Andrea Renzi (Lorenzo), Giorgio Colangeli (Riccardo), Flavio Parenti (Tancredi); produzione: Alquimia Cinema, Cattleya; distribuzione: 01 distribution; origine: Italia, 2007; durata: 109’
