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Parliamo di violenza

Pubblicato il 7 settembre 2016 da Antonio Pezzuto & Mazzino Montinari


Parliamo di violenza

Mi chiedo di cosa parliamo quando parliamo di violenza.
Qui a Venezia in sala se ne vede parecchia: zebre e giraffe sgozzate in Safari di Seidl, corpi strangolati dalle proprie viscere in Blimstone, braccia e gambe mozzate dai cannibali di The Bad Batch, le pistole e le chiavi inglesi in mano a chi cercava di creare una società più felice in Assalto al cielo di Francesco Munzi. E in decine di altri film passati in questi giorni. E tra queste decine anche Home, di Fien Troch.
Ed è proprio su questo film che Mazzino riflette. E dice "Quando penso alla violenza, stimolato da un film, penso al tentativo di raccontarne, molte volte con perdite, l’origine. Abbiamo visto l’olandese Home, che mostra un gruppo di ragazzi violenti. Non hanno moventi particolari. Abitano in quartieri non troppo disagiati, vivono in famiglie benestanti. Vanno a scuola e superficialmente hanno degli insegnanti che si occupano di loro. Quindi, da dove proviene la loro rabbia? In realtà, in un caso, quello più importante per la trama del film, uno dei ragazzi, sarebbe giustificato dalle gravi molestie della madre. Ma gli altri? Non so se Home sia un film così interessante da meritarsi una citazione riguardo a un argomento che attraversa buona parte della storia del cinema. La violenza è una cesura rispetto all’agire umano. Interrompe ogni condivisione. Da questo punto di vista, in Home si perde il mondo e ci si ritrova con persone sole che ne colpiscono altre. Uccidere significa anche interrompere qualsiasi reciprocità tra individui, uno continua a esistere l’altro non più".
E continua: "Ieri ho visto un film giapponese, Gukoroku – Traces of Sin di Kei Ishikawa. Anche in questo caso, il regista, e noi con lui osserviamo il ripetersi di gesti violenti, di soprusi, di prevaricazioni, di carnefici che si fanno vittime e di vittime che si fanno carnefici. Tutto per capire un’origine. Cosa rende violento un individuo, cosa lo porta a un gesto che un altro individuo nelle medesime condizioni non compirebbe?
Quale sia la ragione della violenza, è la domanda che ci poniamo continuamente rispetto agli atti terroristici degli ultimi tempi, quando si cerca di motivare l’azione dell’attentatore. Gli si dà una motivazione sociale, si cerca di disegnare un profilo psicologico. Tutto per chiudere la realtà dentro una griglia, per decifrarla con delle regole comprensibili a tutti. Non possiamo mica permetterci il caos!" E qua inizio a seguirlo un po’ meno.
Il film di Ishikawa l’ho visto anche io. Racconta di un reporter che cerca di scoprire chi ha ammazzato barbaramente una famiglia: moglie, marito e figlioletta. E si addentra in una indagine che coinvolge la struttura sociale del Giappone, il suo essere diviso in caste, l’impossibilità di quello che una volta si chiamava "l’ascensore sociale". E io le ragioni del giapponese che ammazza le ho capite subito. È lotta di classe. È il desiderio che un mondo inizi ad esistere, e l’altro non più. Certo, qua non vediamo la lotta di popolo armato, come si urlava per le strade, ma la semplice lotta di un singolo armato di quello che trova intorno a se: un affilato coltello da cucina, in questo caso. Ma lo scopo del gesto è sempre lo stesso. Sovvertire un ordine che non dona felicità a tutti.
Ma Mazzino non credo sia d’accordo, perchè lui tira fuori di nuovo il film di Seidl, i cacciatori che vanno nel deserto ad ammazzare zebre e giraffe e a farle poi scuoiare, e dice: "In questo film il gesto violento si estende alla stessa osservazione. Persino guardare significa agire in modo violento. Seidl e noi stiamo seduti e vediamo la carneficina. Noi più del regista siamo a debita distanza e pensiamo di essere migliori di chi uccide animali, si mette in posa per una bella foto, squoia, macella e divora carni. Ma non siamo nemmeno un po’ complici? Come andare in una macchina a benzina e far finta che quel gesto quotidiano non provoca, altrove, un bagno di sangue".
E su questo, mentre si guarda un film e segretamente si gode della morte o del sopruso, ha anche il suo senso. Ma tra la violenza di me che guardo un film, quella di chi ammazza una zebra, quella di chi prende un camion e si lancia, come fosse una cosa viva, su un lungomare, quella di chi ha lottato nell’esercito maoista di liberazione nepalese, o durante la guerra sui nostri monti o in Spagna, o di chi su altri monti con un piccone cerca di trovare una strada che lo porti verso il sole, come fa la famiglia raccontata in Monte di Amir Naderi, io una grande differenza la vedo.
E una sola parola per definire tutto questo, mi sembra poca cosa.


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