Pesaro 43 - PNC - How is your fish today?

Diciamo la verità: l’inizio di How is your fish today? sembra davvero essere un invito al pregiudizio in negativo.
La storia di un giovane sceneggiatore in crisi di idee, del tutto incapace, per colpa del sistema, a trasformare in film le sue personali ossessioni e costretto a sbarcare il lunario dedicandosi a soap operas di varia natura, infatti, oltre che essere più che abusata sembra prestarsi soprattutto a quelle classiche elucubrazioni metacinematografiche che, spesso, fanno la gioia dei Festival, ma che, al tempo stesso, finiscono per ’puzzare’ di intellettualismi gratuiti e di una certa presupponente, pedanteria.
Del resto i riferimenti più colti ci sono tutti e, almeno per la buona prima ora di proiezione, paiono essere anche troppi: la povera pianta che finisce senza foglie, morta, già all’inizio del film, porta il nome di Fellini, il pesce rosso gigante, costretto in un catino senza neanche la possibilità di muoversi e di nuotare viene irrimediabilmente ribattezzato Bella di giorno e da qui via elencando tutta una serie di omaggi incrociati di cui sarebbe quasi impossibile rendere conto in questa sede.
I riferimenti, comunque, vanno ben oltre i semplici ammiccamenti al cinefilo meno esperto, ma si muovono sulla superficie dello schermo toccando con le ali del déja-vu fin troppe inquadrature. Con la leggerezza del mezzo digitale (che in parte si rifà alla poetica della camera stylo della Nouvelle Vague), il regista ricalca i suoi modelli più amati. Sicchè quando la macchina da presa comincia ad aggirarsi tra le quattro sporche mura del suo appartamento, si possono vedere, tra gli scaffali della libreria o sul tavolo del salotto, libri, dvd e locandine di film amati (ed omaggiati) quasi si fosse dalle parti degli incendi di Fahrenheit 451 di Truffaut. Ad un certo punto, poi, il protagonista comincia a fumare una sigaretta nello stesso modo in cui la fumava Godard in quella che resta la sua foto più celebre e conosciuta. Quando, infine, la macchina da presa si fissa su un unico campo medio che va a riprendere una coppia a tavola, con lui che mangia e lei che fissa nel vuoto come in una pellicola di Tsai Ming Liang, l’impressione é che tutto il film non sia altro che un’operazione di testa, un semplice atto d’amore (con la minuscola) per il cinema che lascia un po’ il tempo che trova.
L’idea dell’omaggio incrociato, dell’incastro dei riferimenti e delle ’citazioni’ non tocca, comunque, solo i dettagli di cui può essere composta ogni singola inquadratura, ma va ad infirmare tutta la struttura del racconto. Da questo punto di vista si potrebbe esemplificare l’intero senso dell’operazione secondo una formula adamantina in cui vanno ad essere ibridate le preoccupazioni poetiche di un film come 8 e mezzo (la preoccupazione per il futuro stesso del cinema attraverso la storia di un autore in crisi creativa) e I Vitelloni (il racconto della difficoltà del distacco dalla propria Heimat, dalle proprie abitudini, dalle proprie origini). Tutto Fellini, dunque.
Come in 8 e mezzo l’idea è quella di avverare una sorta di corto circuito situazionale tra la storia ’reale’ dello sceneggiatore in crisi di idee che si trascina stancamente negli spazi della sua abitazione del tutto incapace di andare anche semplicemente fuori città, e quella del suo personaggio che fugge da un passato misterioso ed incerto. Mentre, quindi, lo scrittore resta, per lo più, ancorato nel solo spazio fisico del suo appartamento, il suo personaggio, nato in un oscuro paesino all’estremo sud (sul confine col Vietnam) e proteso verso l’oscura e allettante meta della città di Mohe (all’estremo nord sul confine con la Russia), è l’emblema di un movimento costante, ma riluttante (basta, infatti, la presenza di una donna silenziosa e triste, perchè il viaggio si fermi per un periodo che immaginiamo anche troppo lungo).
Per lo sceneggiatore, quindi, raccontare la storia del suo eroe perso nelle contrade di una Cina descritta con grande vividezza, è un modo per confessare a se stesso prima ancora che agli altri quelle che sono le sue preoccupazioni maggiori, le sue ansie, le sue paure.
Come si chiarisce nel poetico finale che, proprio in extremis, ci riconcilia con quest’opera ambiziosa e non sempre risolta, la sceneggiatura è, per il protagonista, solo un modo per liberarsi delle proprie insicurezze e per mettersi, finalmente, in strada staccando il cordone ombelicale delle proprie abitudini e del proprio stesso modo di essere. Come ne I vitelloni, quindi, il film si conclude con una partenza, con un messaggio di speranza ed un’apertura verso il futuro. Ed è bella l’immagine in cui ’realtà’ e ’finzione’, ’film’ e film nel film’ si fondono definitivamente e lo sceneggiatore raggiunge, sulla neve, il proprio personaggio, superandolo poi nella consapevolezza che la sua storia aveva il solo scopo di costringerlo a mettersi in moto. E’ bella per la sua notevole carica esemplificativa che ha il sapore di quelle verità spirituali che sono elementari ed efficaci come tutto il pensiero orientale.
Al di là dei continui riferimenti cinematografici, comunque, ciò che colpisce di questo film sta soprattutto in quei momenti in cui la macchina da presa abbandona le sue elucubrazioni e comincia a cogliere il divenire della realtà cinese. In questi momenti, quando l’immagine sapientemente composta (molto bella la fotografia) coglie scorci di vero, quando il racconto cede il passo alle divagazioni e quando la ’realtà’ prende davvero il posto della ’finzione’, il film comincia a volare alto davvero.
(Jin Tian de yu ze me yang); Regia: Guo Xiaolu; sceneggiatura: Hui Rao, Xiaolu Guo; fotografia: Sheng Lu; montaggio: Emiliano Battista; musica: Matt Scott; interpreti: Hui Rao, Hao Lin, Ning Hao, Xiaolu Guo; produzione: Xiaolu Guo prod., Tigerlily Films, Desire production, Channel 4 British Doc Foundation; origine: Cina, Gran Bretagna, 2006; durata: 83’; webinfo: Sito del regista
