Pesaro 43 - PNC - Operation Filmmaker

All’inizio Operation Filmmaker non doveva essere niente di più che uno di quei classici clip cui MTV ci ha abituati da tempo. Un giochino veloce, dal montaggio serrato, pronto ad essere intervallato da stacchi pubblicitari ben programmati.
Tema: come un giovane studente di cinema iraqueno, la cui scuola era stata appena bombardata dalle truppe americane che avevano da poco rovesciato il regime di Saddam Hussein, veniva coinvolto nella realizzazione di un film tutto americano. La storia pareva essere, sin dall’inizio, estremamente edificante e si prestava a diventare una di quelle operazioni di silenziosa, divertita propaganda sull’intero sistema americano di cui la rete è sapiente portavoce (pur se in un contesto ampiamente liberal). Un ulteriore paradigma, insomma, dell’american dream dove ad essere protagonista non era, questa volta, un ennesimo esponente del ceto medio-basso della realtà sociale americana, ma, addirittura, un iraqueno, sostanzialmente un nemico.
Le prime riprese di quello che avrebbe dovuto essere niente più di un breve backstage rientrano perfettamente nel target di questo genere di prodotti televisivi: inquadrature apparentemente rubate dal set, protagonista che guarda continuamente in macchina con sorrisi sornioni e complici, interviste ai veri membri della troupe (in particolare il regista del film, Ogni cosa è illuminata Liev Schreiber e il suo protagonista Elijah Wood) e via elencando tutta una serie di situazioni fritte, rifritte e decisamente stantie. L’atteggiamento della regista sembrava essere, almeno all’inizio, quello dell’esecuzione di un preciso lavoro, fatto senza troppa partecipazione o spirito di innovazione.
Qualcosa, però, non funziona. La magnificazione del sogno americano non sembra riuscire a prendere corpo per svariati motivi. I realizzatori di Ogni cosa è illuminata assumono nei confronti del giovane iraqueno un atteggiamento decisamente paternalista che è tipicamente americano. Il loro atteggiamento potrebbe essere riassunto nella formula: "Sei già estremamente fortunato ad essere qui, ora sta a te trovare il modo di renderti davvero indispensabile!". I produttori assegnano, quindi, al nuovo venuto quelli che sono i compiti fondamentali per chiunque debba accostarsi al cinema: portare il caffè all’assistente dell’assistente del produttore e mescolare le noccioline in bicchieri di plastica per tenere sempre pronti gli spuntini. La reazione del giovane iraqueno è quella di un ragazzino viziato (in patria non se la passava certo male): ubbidire, ma rimarcare che quello non dovrebbe essere il suo lavoro, che lui è lì per imparare a fare cinema.
Il paternalismo americano è esattamente come quello che ha finto di motivare la Guerra: importare la democrazia, ma non permettere davvero alla nazione coinvolta di decidere il proprio modello di democrazia. Il giovane aspirante regista viene piazzato, come del resto è anche giusto, nel gradino più basso della gerarchia preposta alla realizzazione di un film, ma non gli vengono forniti gli strumenti necessari per operare il suo lavoro. Viene inserito in un sistema e si dà per scontato che egli riesca ad orientarsi, ad integrarsi e ad agire in un tempo brevissimo. In realtà nessuno, abbiamo il sospetto neanche la regista che pure, incontrata a Pesaro, è persona squisita, si aspettava da lui una luminosa ascesa nel mondo del cinema. In lui non si vedeva altro che un ingrediente gustoso per un programma da prima serata. Una di quelle classiche figure che ci fa piacere aiutare, che ci dà un momento di pubblicità, che tacita le nostre coscienze afflitte dalle preoccupazioni per una guerra che si sta rivelando più lunga e sanguinosa delle previsioni, ma che si dimentica come l’oroscopo la mattina. Era il sorriso di cioccolato che qualche volta disegnano sulla schiuma dei cappuccini: scompare non appena si comincia a bere.
La figura, però, si ribella al meccanismo, rifiuta di essere disegnata in un certo modo, comincia a proporsi come "altro" da quello che la rete televisiva avrebbe voluto. E’ pigro, non ha voglia di lavorare. Piuttosto che mettersi al tavolo da montaggio per preparare un rullo di papere dal set da mostrare agli attori alla fine delle riprese (la massima responsabilità che gli viene data, senza troppe spiegazioni, ma con scadenze ragionevoli) preferisce andare ad una festa ad ubriacarsi coi nuovi amici conosciuti a Praga. Sente che, essendo il protagonista del documentario che stanno girando sulla sua avventura, ha precisi diritti: devono prendersi cura di lui, non può essere lasciato a piedi perché la brutta figura conseguente sarebbe tutta del sistema stesso che lo ha eletto ad eroe meritevole dei quindici minuti di fama che la televisione non può non garantire.
La situazione sfugge, così, di mano a tutti. Il produttore si fa da parte e la regista si mette in gioco in prima persona: continua a girare consapevole del fatto di avere tra le mani un altro personaggio, più interessante, più sfuggente, più ambiguo. Anche le sue motivazioni si fanno ambigue: perchè continuare il documentario? Cosa vuole dimostrare? Ha fiutato potenzialità commerciali? Oppure la sua è una ricerca spassionata sull’infinita interpretabilità delle nostre maschere (perchè il giovane iraqueno ne ha davvero tante)? E il film diventa autoreferenziale, parla di se stesso e del suo farsi. Parla del problema della messa in immagine del mondo e di come sia diventato impossibile, nel moderno sistema capitalistico che vende le immagini un tot al peso, riprendere qualcuno in maniera vergine, innocente, ingenua. Le persone, non appena si accorgono di essere riprese, cominciano subito a manipolare la realtà a loro uso e consumo. Il documentario è diventato un’utopia: la realtà, non appena viene fatta oggetto di ripresa, tende a mettersi in scena e, ancor peggio, a rivendicare diritti di sfruttamento commerciale. Le persone sono consapevoli, ormai, che dietro un meccanismo di ripresa c’è tutto un sistema economico. E il giovane iraqueno, che sembrava essere il più occidentale dei suoi compagni di corso, si rivela tale per la sua volontà di cavalcare la tigre e di sfruttare, finchè possibile, l’intera situazione.
E l’onestà intellettuale del documentario (che resta opera importante e bella) sta tutta nel non nascondere le proprie contraddizioni. Anzi le rende feconde, le spinge nell’arena del dibattito. Commuovendo per il tentativo di dare onestà a qualcosa che non era nato, in fondo, onesto.
L’infinita ambiguità del reale, così, atterrisce. Gli americani non hanno mai letto Pirandello e non ci stupisce allora che per loro la cosa sia una novità. A noi europei non resta altro, invece, che sentirci un po’ più vecchi nel constatare il candore con cui si dibattono ancora nel paradosso filosofico.
(Operation filmmaker - work in progress); Regia, sceneggiatura e fotografia: Nina Davemport; montaggio: Nina Cavemport, Aaron Kuhn; musica: Sheldon Mirowitz; produzione: Swinging T Production; origine: USA, 2007; durata: 92’
