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Pesaro 43 - Retrospettiva Zulueta - Ivan Z.

Pubblicato il 27 giugno 2007 da Alessandro Izzi


Pesaro 43 - Retrospettiva Zulueta - Ivan Z.

C’è un piccolo miracolo alla base di Ivan Z. di Duque: soggetto ed oggetto del discorso, da un certo punto in poi, coincidono, diventano una cosa sola o, per essere più precisi e più vicini ad una delle massime ossessioni di tutto il cinema di Zulueta, divengono l’uno il doppio dell’altro e si riflettono ribaltandosi reciprocamente in un gioco di rifrazioni incredibilmente affascinante.
Duque incontra Zulueta un po’ per caso un po’ per desiderio e solo molto lentamente matura l’idea di filmare un’intervista nella quale il meno conosciuto dei registi spagnoli abbia la possibilità di raccontarsi e di confessarsi. Il film che ne doveva venir fuori, quindi, almeno per come era stato progettato, non avrebbe dovuto essere molto diverso da uno di quei classici film intervista in cui la macchina da presa si limita a registrare le dichiarazioni dell’intervistato mantenendo nei suoi confronti uno sguardo limpidamente oggettivo, statico e quasi impersonale.
Non appena, però, si accende la luce rossa della ripresa e la magia del cinema riprende ad aleggiare dentro quella stessa casa che aveva visto nascere tanti capolavori e nella quale lo stesso Zulueta si era autorecluso rifiutando ogni contatto col mondo e negandosi ogni possibilità di riprendere a girare, l’operazione sembra sfuggire di mano al suo autore per trasformarsi in qualcosa di radicalmente differente.
Il vecchio regista spagnolo, che divide la casa con la madre ormai novantenne e un cane molto vivace, pian piano sembra impossessarsi dell’inquadratura, ne assorbe ogni anfratto, si impone sul girato rivendicando ad ogni passo la sua dimensione di autore e non solo di oggetto del discorso. Il film, che avrebbe dovuto essere, quindi, uno spassionato ritratto di un uomo e della sua opera passata e quasi dimenticata, si trasforma in sede di ripresa e diviene il ritratto di un uomo che è la sua opera.
Zulueta diventa, così, il secondo autore neanche tanto occulto del documentario: indica costantemente al giovane regista che lo filma cosa riprendere e come farlo. E racconta. Si abbandona all’onda del ricordo e ogni sua parola, non appena proferita di fronte allo sguardo fenomenologico della macchina da presa si tramuta, come per incanto, in cinema.
Nulla viene taciuto nell’intima confessione di Zulueta uomo. Ogni cosa viene narrata con parole impietose e reminescenti, sia che si parli della sua ossessione per le droghe (bisognava provarle tutte, anche se l’eroina doveva essere assolutamente l’ultima della lista, il confine estremo poi dolentemente varcato) sia che si sfiori il suo inesausto amore per il cinema che mette in cima alla lista dei film fondamentali tanto L’angelo sterminatore di Bunuel quanto i documentari sulla vita dei salmoni ("che sfiga hanno quelli che risalendo la corrente, in un disperato ritorno alle origini, fanno un gran salto e finiscono impantanati nelle pozze d’acqua stagnante").
Zulueta vive nelle immagini di Duque. E’ presente sin nelle primissime carrellate verso l’alto, imperfette e traballanti, che sono ad immagine e somiglianza delle inquadrature dei primi Super 8 sperimentali del regista spagnolo.
Ma l’operazione tocca il suo vertice di autoconsapevolezza autoriale quando Zulueta prende in mano la sua vecchia macchina da presa e comincia a filmare le cose che ha davanti sotto lo sguardo del documentarista che continua a seguirlo. Ad essere ripresi brevemente sono il muro di edera che recinta la casa e lo stesso Duqua che lo filma: ad un tempo il segno del suo isolamente rispetto al mondo e un nuovo, insperato contatto che a quel mondo lo riporta necessariamente. La dinamica di campo/controcampo tra soggetto ed oggetto del discorso, il momento in cui ci è finalmente concesso di guardare attraverso gli occhi di colui che è guardato è un momento di altissimo cinema e non solo per le implicazioni teoriche e metalinguistiche che esso comporta, ma perché è la sintesi suprema di un momento straordinariamente toccante. Quello in cui un grande cineasta riprende in mano la sua stessa telecamera.
E’ in questa descrizione di un uomo che non riesce a fare a meno del cinema, anche quando ad esso ha rinunciato, che riposa uno dei motivi di poesia e uno dei più grandi meriti di un documentario che paradossalmente diventa anche l’ultimo film che Zulueta ha "firmato".

Leggi anche l’intervista al regista Duqua e al produttore


CAST & CREDITS

(Ivan Z.); Regia, sceneggiatura e produzione: Andrés Duque; montaggio: Martin Sappia; produzione: Estudios Piràmide; origine: Spagna, 2004; durata: 53’


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