Pesaro 44 - Am Ende kommen Touristen - Cinema Tedesco Contemporaneo

Auschwitz è per tutti il nome che si legge sui libri di scuola. Lo si trova tra le date più nere del secolo scorso e anche chi non c’è mai stato riesce ad immaginarlo facilmente: un luogo di baracche, di recinti, grigio e in bianco e nero che lo devi attraversare in silenzio, con atteggiamento di preghiera, quasi stessi chiedendo scusa ai morti.
La sua dimensione di documento e monumento mettono a disagio. Lo senti come qualcosa di lontano anche se ci sei dentro, anche se cammini per quelle strade e credi quasi di sentire ancora l’odore dolciastro e brutto della carne bruciata nei forni.
Auschwitz è un pezzo di Storia che ti si para davanti, immutato, ad ammonirti per il presente, ad indicarti i possibili vicoli ciechi del futuro.
E quando ci vai, lo fai portandoti dentro il preconcetto dei libri di storia, lo fai dopo aver troppo studiato sui documentari e i film che passa la TV. Ti resta il dubbio che qulle emozioni che provi in quel momento non te le sta suscitando il posto con le sue ombre e i suoi ricordi, ma che te le sei piuttosto portate dietro da casa, insieme con lo spazzolino e il cambio di biancheria.
E’ con queste idee che Sven, un giovane tedesco, arriva ad Auschwitz per fare il suo servizio civile. Non era la sua prima scelta, nè la meta che aveva sempre sognato. Nel far domanda presso le autorità competenti aveva, anzi, pensato che non gli sarebbe dispiaciuto lavorare in Olanda o da qualche altra parte a Nord. Auschwitz era un ripiego scomodo, buono semmai come penitenza per un ragazzo che sente di dover in qualche modo scontare il suo passato e le sue radici. E Sven un poco si sente così, un poco crede di dovrersi confrontare col suo essere tedesco e capire con se stesso, almeno, cosa possa voler dire costruirsi un’identità nella Germania di oggi.
Scende, quindi, dal treno aspetandosi di vedere i campi, i resti dei forni, i musei a cielo aperto e tanta gente triste e si ritrova, invece al loro posto fermate d’autobus gremite di persone, palazzoni polacchi col ricordo del comunismo e gente che fa compere ai supermercati. Una città come tante, piena di vita laddove doveva esserci il senso della morte, il dolore.
L’erba è cresciuta ancora tra le barecche. Il verde della vita si è insinuato negli interstizi della Storia e ha rivendicato il bisogno tutto umano di dimenticare anche in quei posti che si lasciano intatti a preservare memoria del passato.
Sven è disorientato. Così tanto confuso che quasi non si avvede del contrappasso ironico del lavoro che hanno pensato per lui: accudire un ormai anziano testimone dell’orrore, un sopravvissuto all’Olocausto. Un tedesco dev fare da balia ad un ebreo, deve prendersi cura di un esponente di quella razza degenere che appena cinquanta anni fa non avrebbe avuto neanche diritto ad un tozzo di pane.
Il lavoro non è facile anche perchè Stanislaw Krzeminski, questo il nome dell’anziano polacco, non è persona facile per nessuno. Ha vizi strani: ripara le valigie che l’Istituto (quelle messe in mostra nelle baracche dell’orrore) gli affida, passa le giornate mugugnando, non sembra avere affetti e la sua missione di testimone la prende anche troppo sul serio. E’ un frammento di passato più vivo delle tavole di legno delle baracche, dice del passato cose vere che tutti conoscono e non vogliono più sentirsi ripetere. E’ diventato scomodo, ma nessuno può sognarsi di metterlo da parte: sarebbe di cattivo gusto, sarebbe una cosa che chiunque potrebbe leggere come segno di un razzismo retaggio del passato. E’ come quel nonno che metteresti volentieri in ospizio se non pagassi, con la sua pensione, l’affitto dell’appartamento nel quale anche tu vivi.
Il grande paradosso è che l’utopia di Stanislaw Krzeminski è quella di riparare gentilmente il passato. Quelle valigie che gli danno dovrebbe appena spolverarle, lasciandole come sono secondo il motto "Conservare non aggiustare", e invece lui le riporta a nuova vita, quasi cancella i segni che l’orrore ci ha inciso sopra con lettere di sangue.
Krzeminski è il segno di una realtà che rifiuta le logiche del museo: l’errore non vuole lasciarlo così com’è perchè gli altri lo vedano. Vorrebbe correggerlo. Anche perchè, quand’era prigioniero, quelle valigie gliele affidavano le persone che si avviavano alle docce, con tante raccomdandazioni e un filo di speranza.
A pensarci è questo il paradosso in cui si dibatte tutto il cinema tedesco che tenta di confrontarsi con l’olocausto. Un regista come Spielberg (terribile la battuta di Stanislaw, quando, consapevole ormai della sua posizione scomoda, dice a Sven che quello che lui può ancora raccontare i ragazzi preferiscono sentirselo dire da film come Schindler’s list) può ancora limitarsi, coi suoi film, a testimoniare l’orrore.
Un autore tedesco, invece, non può limitarsi a raccontare. Un regista tedesco deve elaborare il suo passato. Come Krzeminski, deve riparare la valigia e non limitarsi a spolverarla. Ma nel far questo è ovvio che il mondo gli dia addosso accusandolo di occultare il suo passato, di voler fare revisionismo storico. Un vicolo cieco impossabile ad affrontarsi.
Quanto è miracolosamente denso Am Ende kommen Touristen! E’ film di una bellezza mesta. Onesto fin nel midollo. Etico ogni volta che getta la sguardo nell’abisso.
Ci parla con parole di fuoco di un oggi così indifferente, così proteso a dimenticare. Un presente in cui l’orrore si dissolve nell’oblio e in cui per ogni dove, anche nella tragedia più grande, tutto muore in museo e alla fine arrivano i turisti.
Opporsi a questo destino è l’imperativo categorico di noi tutti.
Alessandro Izzi
(Am Ende Kommen Touristen); Regia e sceneggiatura: Robert Thalheim; fotografia: Yoliswa Gärtig; montaggio: Stephano Kobe; musica: Anton Feist, Uwe Bossenz; interpreti: Alexander Feeling, Piotr Rogucki, Ryszard Ronczewski; Barbara Wysocka; produzione: 23/5 Filmproduktion; vendite internazionali: Bavaria Film; origine: Germania 2007; durata: 85’
