Pesaro 44 - Lichter - Cinema Tedesco Contemporaneo

Se si vuole parlare di immagrazione è bene spostarsi dalle capitali dell’impero, allontanarsi dalle beghe di palazzo e fare il vuoto tra il proprio sguardo e il grottesco accavallarsi dei disegni di legge.
Meglio mettersi sulle linee di confine dove tutto si fa grigio e confuso, dove diventa difficile misurare la distanza tra legalità ed illegalità, dove la precisa demarcazione che separa una nazione dall’altra si riduce a niente più che un muro immaginario contro il quale si infrangono i ben più concreti sogni di chi tanto vorrebbe passare dall’altra parte.
E’ intorno ai confini che le razze si confondono, che le lingue si mischiano in una sorta di concreto esperanto e che si intrecciano le storie più incredibili. E’ qui che la disperazione si fa palpabile e grigia, diventa tutt’uno con l’aria, non meno grigia, che si respira.
Lichter di Hans-Christian Schmidt è proprio questo: un film corale che racconta l’orrore di quel non luogo che è la Terra di confine. Il suo paradosso è nella scelta di campo: non piani lunghi e panoramiche, non scene di massa e picchi da cinema spettacolare, ma primi piani, volti, sguardi. Perchè tutto il senso della tragedia, il frantumo dei cristalli coi quali avevamo costruito le nostre fragili aspettative, voi lo sentite negli occhi di chi quei sogni le aveva coltivati e non certo nella visione asettica della fredda tecnologia delle sbarre di ferro che chiudono le dogane.
Il racconto di Schmidt è classico nell’impostazione e lirico nella sua composta adesione con la materia narrata. E’ un canto accorato e mesto sul destino di chi la povertà ce l’ha tatuata sulla pelle ed impressa negli occhi. E’ un intrecciarsi inesausto di storie diverse che riescono ad essere miracolosamente abbastanza generiche da conservare una sorta di dimensione da apologo esemplare, eppure abbastanza connotate da presentarsi a noi coi tratti distintivi dell’unicità.
Così il modello corale di tanto cinema spettacolare americano alla Altman o alla Haggis (e questo film precede di qualche anno l’uscita di Crash - Contatto fisico) sembra incontrarsi con la pensosità di Kieslowski quasi ad avverare, anche a livello stlilistico, quella babele di storie, di nazioni, di culture che è ogni No man’s land. E così uno sguardo esistenzialista e filosofico si sovrappone al messaggio politico permettendo al regista di attingere a profondità di pensiero davvero notevoli.
Lichter è un film di anime e di gesti, un film di emozioni e di tormento, un’opera in cui anche il grottesco spettacolo degli immigrati che sbattono sul muro di vetro dei confini come falene attratte dalla luce assume i connotati di una tragedia a stento trattenuta. E’ un film impregnato di una disperazione discreta, fitto di storie di un lavoro che non c’è, di fallimenti e di miserie. Storie in cui l’illegalità si confonde con l’istinto di sopravvivenza e dove gli affetti non sembrano davvero più capaci di affrontare la decisiva prova del quotidiano.
Eppure in questo paesaggio stinto e notturno, amore e compassione sono miracoli meno rari di quanto non sarebbe dato di pensare e gesti disinteressati sbocciano un po’ ovunque come fiori di loto nel fango delle paludi. Certi essi sono meno numerosi degli infiniti imbrogli degli scafisti, sono meno eclatanti di quelli compiuti da chi si fa pagare in moneta sonante la speranza di un passaggio che non ci sarà, ma questo li rende ancor più belli. Belli perchè piccoli, come un sorriso regalato nel momento più buio, come una mano tesa in aiuto quando si è caduti e non si pensa più di avere la forza per rialzarsi. Belli perché ti arrivano da dove meno te lo saresti aspettato: da quel giovane studente che mette a rischio il suo lavoro per te che non hai ancora chiesto niente o da quelle interprete che finge di tradurre le frasi del poliziotto che ti vorrebbe espatriare e, invece, cerca di suggerirti una strategia per restare, per chiedere asilo. E non importa quanto piccoli siano i sogni che ti porti nel bagaglio, perchè quella disperazione che ti portavi dentro può essere trasformata in qualcosa di positivo: fosse anche solo scattare delle foto belle di una piazza di notte quando per domani non hai alcuna certezza e il lavoro forse non verrà.
Schmidt racconta la sua tragedia corale ed epocale con la consapevolezza di chi sta filmando la fine di un mondo. E la sua storia, come un fascio bianco, passa attraverso un prisma perfetto che la scompone in tanti colori distiniti. Diversi come le classi sociali messe in scena (dai rampanti capitani di inudtria che progettano palazzi ai poveri disperati senza occupazione) o come le età dei personaggi (dai vecchi ricchi ai ragazzi che scoprono il sesso insieme coi perversi meccanismi dello spaccio delle sigarette di contrabbando).
E in questo universo allo sbando trova miracolosamente lo spazio per una personale laica preghiera di pace.
(Lichter - Distant Lights); Regia: Hans-Christian Schmidt; sceneggiatura: Hans-Christian Schmid, Michael Gutmann; fotografia: Bogumil Godrejow; montaggio: Bernd Schlegel; interpreti: August Diehl, Herbert Knaup Julia Krinke, Maria Simo; produzione: Claussen Wöbke Filmproduktion; vendite internazionali: Bavaria Film; origine: Germania, 2003; durata: 105’
