Pesaro 44 - Nachtmittag - Cinema tedesco contemporaneo

Un pomeriggio d’estate. Una casa vicina ad un lago abitata da una famiglia stancamente in crisi. Una giornata quasi senza vento: il lago è appena increspato da quella brezza leggera che muove anche le foglie producendo quello stormire discreto che invita al sonno col suo ricordo di frescura. Il pomeriggio è appiccicoso, come si son fatti appiccicosi i legami che tengono salda (ma è solo l’apparenza) questa famiglia che non aspetta che la notte e la dissoluzione.
Sono personaggi usurati dall’abitudine al silenzio i protagonisti di Nachtmittag, figure di un’esapserante cupio dissolvi, tonalità sinistre e scure (in un film dominato dalla piena luce) di un sofferto Requiem all’istituzione familiare.
Non possono fare a meno l’uno dell’altro anche se sanno che la loro reciproca vicinanza è il motivo del loro lento morire.
Obbligati ad occupare gli spazi della casa come attori di una scena, si muovono al pari di fantasmi divisi tra l’essere in campo e l’essere fuori campo nei confronti di una macchina da presa che si ostina a rimanere ferma, quasi indifferente (in realtà sin troppo partecipe) al loro destino.
Lo stormire delle fronde degli alberi, il gioco dei riflessi sulle acque sporche del lago sembra essere più importante del loro misero agitarsi in scena, del loro stare appena a galla su di un mare di noia e stanchezza, privati anche da quella variante esistenziale che è il chiedersi ancora un perchè delle cose e del loro essere al mondo.
La vita per loro è diventata un mero dato di fatto, scontato ed anche un poco fastidioso: la si porta avanti in attesa che arrivi il buio ed il fresco, incapaci a compiere quel minimo atto di volontà che potrebbe cambiare davvero le cose, che potrebbe portare un filo di vita nel loro lento morire.
Eppure la soluzione, come in Checov, sembrerebbe così vicina, così a portata di mano: è altrove, ovunque fuori dal film, al di là di un set cinematografico che si è fatto prigione, negli spazi di una fuga che è resa impossibile solo dall’indolenza e dalla voglia di non muoversi.
Basterebbe appena indossare un cappotto, preparare una valigia e fare giusto un passo oltre quel sipario di ferro che apre il film con tutto il fragore di un cambiamento che non si consuma per davvero (la scena, non a caso, racconta di un personaggio che, in procinto di partire, indugia in mille modi sul palco, giocando con un cane o sostando ancora di fronte a quel poco pubblico che ha speso i soldi del biglietto per assistere alla rappresentazione della sua stessa vita).
Un atto di volontà che non si riesce a compiere perchè è difficile, coprattutto d’estate, coi vestiti che ti si incollano addosso per il sudore, prendere una decisione e perchè è ancor più difficile ammettere con se stessi che fuori di qui è la salvezza e qui c’è solo morte.
Angela Schanelec costruisce un film la cui più grande ambizione è quella di raccontare la lenta azione corrosiva del Nulla nei confronti della Vita e degli Affetti. Lo fa attraverso un’esaltazione della stasi, con il rigore di una messa in scena che rifiuta ogni consolazione e si concentra con oggettività assoluta sui vuoti e sul silenzio.
Più che i volti e le figure sono importanti, in questo film, gli spazi mediani, l’invisibile rete di fili che unisce fino a soffocarli (come farebbe una busta di plastica impigliata intorno al collo di un gabbiano) i vari personaggi del racconto.
La loro vita è come quel romanzo che ci si ostina a non finire, che sta lì, sul monitor del PC, praticamente concluso eppure definitivamente incompiuto.
In questo modo i personaggi della madre, dello zio, della bambina, del giovane scrittore in crisi e dell’amante diventano, nella loro vocazione all’esemplarità, emblemi di una condizione umana universale.
Certo è Checov quello messo in scena dalla Schanalec, ma è un Checov rivisto e corretto, un Checov aggiornato non solo nell’ambientazione e nell’epoca della messa in scena, ma anche nello spirito e nel cuore. Un Checov più abituato alla messa in scena del Niente, forse perchè, nel frattempo, ha avuto modo di leggere molto Beckett.
Esponente di spicco della scuola berlinese, la regista compone un racconto fatto di quadri rigorosi e neri in cui la noia si fa esperienza estetica. Un gioiellino di messa in scena in cui il linguaggio teatrale si esaspera in una vocazione al Kammerspiel che è tutto cinema e poco palco.
Con una direzione degli attori da urlo e una ripresa del suono da mettere i brividi.
(Nachmittag); Regia e sceneggiatura: Angela Schanelec; soggetto: da Il Gabbiano di Anton Checov; fotografia: Reinhold Vorschneider; montaggio: Bettina Böhler; interpreti: Jirka Zett, Miriam Horwitz, Angela Schanelec, Fritz Schediwy; produzione: Nachmittagfilm, ZDF; origine: Germania, 2007; durata: 97’
