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Pesaro 44 - No London today - Bande à part

Pubblicato il 25 giugno 2008 da Alessandro Izzi


Pesaro 44 - No London today - Bande à part

No London today è un documentario che sembra nascere letteralmente per caso, da solo, come quei ciuffi d’erba che si insinuano negli interstizi dei marciapiedi, tra mattoni e asfatlo, dove non avresti mai creduto che potesse nascere la vita. Sembra quasi che idea e realizzazione nascano insieme, direttamente sul campo, e procedano di pari passo coll’inesorabile dipanarsi della realtà di fronte all’occhio freddo e tecnologico dell’obiettivo di ripresa digitale.
Non c’è progetto, dietro la realizzazione del documentario, se non la volontà di lasciare che la realtà parli di per sè, nel suo eterno soliloquio. Non c’è un’idea preesistente alla materia narrata se non il desiderio di un’obiettività tanto spassionata quanto doverosa. Un’obiettività impossibile perchè già nell’atto di inquadrare si opera una scelta e si impone, di conseguenza, un preciso punto di vista.

Utopia impossibile, ma necessaria per ogni documentarista. Meta da raggiungere, ma che continua tuttavia a fuggire via con ali di farfalla.

Delphine Deloget conosce bene la realtà di Calais. Ci ha vissuto per lungo tempo e quelle strade e quella gente che le popola sono state sotto il suo sguardo per anni senza che l’idea di costruirci sopra un film riuscisse ad andare oltre quelle vaghe aspirazioni con le quali ci si sveglia la mattina quando il caffè non ci ha ancora riportati, col suo calore amarosco, nel quotidiano e nell’oggi. Appena comincia il film la immaginiamo uscire di casa senza una precisa idea. Riusciamo quasi a vederla camminare, colla telecamera appesa al collo e con quell’atteggiamento di chi sa che vuol riprendere qualcosa, ma con quell’indolenza di chi aspetta che la realtà, qualsiasi essa sia si mette in posa.
Sulla strada ci sono i soliti immigrati in attesa del loro sogno. Sono giovani, spesso giovanissimi ed hanno tutta la sfrontatezza della loro età. Una sfrontatezza amplificata dal loro essere in una terra straniera, a contatto con una cultura che è così profondamente diversa dalla loro.
Hanno storie attaccate addosso. Hanno il ricordo delle madri, delle fidanzate, delle mogli, delle case e dei comodi sofà che si sono comprati col sudore sulla fronte. Storie che gliele leggi un po’ negli occhi, un po’ in quei sorrisi mesti e franchi con cui ti guardano, straniero, sapendo di essere loro l’altro, il visitatore, l’ospite spesso sin troppo indesiderato.
Delphine quasi inavvertitamente accende la digitale che ha appesa al collo e la punta su quei volti, su quei mezzi sorrisi, su quelle storie di ordinaria disperazione e chiede complicità.
Li mette in scena, così, e sa che a metterli in scena in questo modo onesto, senza mediazioni, quasi per gioco, implica la messa in discussione del suo stesso ruolo di documentarista. Anche se resta sempre (tranne che in una breve inquadratura, non a caso all’inizio del film) dietro la macchina da presa è lei stessa parte integrante del disegno.
Il documentario non è tanto sulle vite di questi immigrati che vivono ai margini aspettanto l’occasione di lasciare una Francia inospitale in vista di una Londra che te la sogni la notte quando il ricordo di casa si fa bruciante. Il documentario è la storia di questo incontro. Non è nelle storie di Chafik, Aron, Abraham, Henok ed Ermias che son belle, ma così disperatamente uguali a quelle di tanti immigrati nelle loro stesse condizioni. Il documentario, piuttosto, è il racconto di un incontro. E’ la storia di un dialogo possibile, eppure tremendamente difficile tra una donna cresciuta in Occidente, tecnologica, e, in fondo, abbastanza piena di sè che si fa rifugio e casa per i racconti di questi ragazzi che la loro disperazione non la ammetterebbero mai.

In questo modo si confondono le parti, si sfumano i confini e tutto si fa ambiguo. Il documentario mette in scena non solo la vita che scorre inesorabile, ma anche e soprattutto il suo stesso farsi. Fingendo di raccontare le vite randagie di questo gruppo di ragazzini, finisce per raccontare se stesso, il suo essere un punto di incontro tra mondi, tra indigenza e ricchezza, tra maschile e femminile, tra ospitante ed ospitato.
La posizione partecipativa e non freddamente oggettiva della regista intriga i ragazzi, li induce a confessarsi. Si vede che per loro è un gioco, si sente che non vivono la videocamera come un ingombro, ma come un ponte che consente il dialogo. Il digitale non è leggero solo perchè permette riprese veloci a costo quasi zero, ma perchè non crea divisioni, non frappone muri. La sua funzione qui, non è estetica, ma quasi esistenziale. Senza il digitale un film come questo non avrebbe mai potuto prendere corpo.

A fronte di questo incontro fecondo ci sono poi le altre storie. Quelle dei bagnanti indifferenti che vanno in spiaggia e questi immigrati sul ciglio della strada non li vedono neppure. O quelle delle catecatiste che vanno nei rifugi per cantare inni e convertire. Storie di monologhi, di silenzi, di indifferenza odiosa eppure nostra.

Delphine Deloget consegna agli annali un film intenso e bello che ci fa sentire male. Ci mostra l’immagine della nostra indifferenza e della nostra abitudine e ci chiede di pensare. Una richiesta cui ci stiamo disabituando sempre più.


CAST & CREDITS

(No London today); Regia, sceneggiatura, fotografia e montaggio: Delphine Deloget; produzione: Injam Production; origine: Francia, 2007; durata: 77’


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